Dopo le cento ore di fuoco fra il consiglio Bce iniziato mercoledì sera e le elezioni greche di ieri, l’eurozona si sveglia lunedì 26 gennaio 2015 un po’ rinfrancata, ma senza assaporare (o diffondere attorno a sé) una sensazione di vera svolta. “Forget Qe” ha titolato ruvidamente un report di un’istituzione europea come Société Générale: è una forzatura, ma se si legge riga per riga il comunicato della Bce in italiano non è difficile capire che il Quantitative easing annunciato giovedì da Mario Draghi in conferenza stampa ha una struttura meno semplice di quanto riferito a caldo dai media. Non sono in arrivo acquisti di titoli sovrani dell’area per 60 miliardi al mese direttamente da parte della Bce fino al settembre 2016, e la ripartizione del rischio “20 a 80” non corrisponde puntualmente a una suddivisione dell’impegno finanziario fra Francoforte e le banche centrali nazionali (Bcn). La Bce invece “deterrà l’8% delle attività aggiuntive acquistate”, mentre un altro 12% di titoli rilevati dalle banche centrali nazionali “sarà soggetto a ripartizione del rischio”. I restanti acquisti aggiuntivi da parte delle Bcn “non verranno invece sottoposti a tale regime”. La Bce “manterrà il controllo su tutte le caratteristiche del programma e coordinerà gli acquisti, salvaguardando l’unicità della politica monetaria dell’Eurosistema. Quest’ultimo ricorrerà all’attuazione decentrata per attivare le proprie risorse”.



In concreto, l’Eurotower vigilerà che ogni mese gli acquisti complessivi da parte sua e delle Bcn non superino i 60 miliardi: le singole Bcn (fra cui la Banca d’Italia) potranno acquistare propri titoli di Stato (principalmente dalla banche del proprio Paese), ma per larga parte a proprio rischio e soprattutto utilizzando o creando propria liquidità (oppure riserve messe a disposizione da altre Bcn dell’Eurosistema).



È quindi meglio comprensibile la veemenza con cui il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, ha polemizzato con il collega della Bundesbank, Jens Weidmann: un’eco evidente dello scontro che – fra la cena di mercoledì sera e la sessione ufficiale di giovedì – ha agitato il summit dei governatori dell’euro. Un vertice al termine del quale non si è votato sul comunicato, perché presumibilmente anche non solo Weidmann avrebbe detto no al puro annuncio del programma, ma anche Visco avrebbe negato la sua approvazione a una manovra di articolazione più farraginosa e d’impatto sostanzialmente minore rispetto alle tre poderose ondate decise dalla Fed sul dollaro.



È altrettanto vero che – lo ha sottolineato anche Il Sussidiario – l’esito “virtuale” della conferenza stampa di Mario Draghi è stato tutt’altro che trascurabile: il minimo di 1,12 toccato venerdì dall’euro verso il dollaro – se confrontato con i recenti massimi superiori a 1,40 – prospetta un miglioramento reale della competitività dei prodotti dell’eurozona finora strangolati dal “super-euro”. E un altro minimo- quello di 116 dello spread italiano – ha comunicato a caldo che i mercati hanno comunque visto scattare nella scelta della Bce un meccanismo basico di “mutualità” fra i debiti sovrani dei paesi membri del club euro.

A una manciata di ore dalla conferenza stampa di Francoforte, tuttavia, il candidato front runner ad Atene, Alexis Tsipras, ha calato l’ultima carta della sua campagna elettorale: “Se vincerò la Grecia è pronta a non rispettare gli accordi presi da governi precedenti; l’austerity non è prevista dai Trattati Ue”. Da ieri sera, Tsipras è virtualmente il nuovo premier greco: i primi exit polls hanno assegnato a Syriza addirittura la maggioranza assoluta del Parlamento. Salvo colpi di scena, il nuovo governo di Atene chiederà dunque forme di ristrutturazione del suo debito: come minimo un allungamento. E questo nuovo “dossier Grecia” – apparentemente meno insidioso, meno connotato dall’emergenza rispetto al 2010-2012 – può tuttavia nascondere un potenziale sismico più forte per le strutture dell’eurozona.

La Grecia – sembra già dire Tsipras – non vuole uscire dall’euro: anzi si è paradossalmente conquistata la partecipazione proprio con la durissima austerity imposta dalla “troika” (Ue, Bce, Fmi). Ha fatto molti “compiti a casa” sul piano del taglio della spesa pubblica, delle privatizzazioni, del risanamento delle banche. È pronta a prendere “nuovi” impegni con i partner europei al termine di una lunga turbolenza originata fuori dall’Europa e comune, negli effetti, a molti paesi della Ue e dell’eurozona. Non c’è più una Grecia “sull’orlo del default”, ma una Grecia che chiede supporto ai suoi partner per normalizzare il suo debito sugli standard di Maastricht. È una Grecia governata da una maggioranza politica non anti-europea come la minoranza di destra radicale “Alba Dorata”. Tsipras è assai più parente di Matteo Renzi che di Marie Le Pen.

È una situazione che l’Italia potrebbe voler condividere, magari non da sola. Sul piano tecnico le soluzioni sono già sul tappeto da tempo. Ve ne sono alcune di più elementari , ruvide, più volte sperimentate in passato: “allungare” il debito può significare renderne “irredimibile” una parte, stabilizzando la rendita ma spostando molto in là il rimborso (ma non va dimenticata proprio l’esperienza italiana nel creare piattaforme di mercato secondario per i propri titoli governativi). Ma già due anni fa due popolari think tank europei (il Cepr di Londra e l’Icmb di Ginevra) avevano delineato un robusto progetto denominato Padre (Politically Accettable Debt Restructuring in the Eurozone).

In estrema sintesi veniva (viene tuttora) proposta la creazione di un “veicolo” per l’acquisto e la trasformazione in “titoli perpetui” di quote di debiti pubblici europei (tutti). Il veicolo – hanno scritto gli economisti Pierre Paris e Charles Wyplosz – potrebbe essere la Bce stessa o un gemello dell’Esm, la struttura mutualistica per ora creata in vista di emergenze speculative, non ancora per una gestione pilotata del rientro dei debiti nazionali.

Il punto, naturalmente resta lo stesso: la natura e la misura di una soluzione “politicamente accettabile” per la Germania. Padre dà per scontato che la Germania mantenga un interesse sostanziale e irrinunciabile all’esistenza dell’euro e che (vista anche l’esperienza del dopo-2008) condivida con gli altri partner l’interesse a prevenire crisi bancarie nell’area.

Draghi ci ha messo quasi sei mesi (dalle prime dichiarazioni in agosto, al seminario Fed a Jackson Hole) per ottenere in Bce una vittoria alla fine più politica che tecnica (ma proprio per questo di valore) sul Qe dell’euro. Ora, neppure troppo paradossalmente, è il giovane premier neo-eletto del Paese più debole dell’euro a porre sul tavolo una questione politica che potrebbe accelerare l’impasse sugli strumenti tecnici. 

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