Le motivazioni della sentenza di condanna per gli ex vertici del Montepaschi sono giunte al termine di una giornata di Borsa in cui il titolo senese ha toccato i minimi, poca sopra 0,40 euro. Il dispositivo con cui, a fine ottobre, il tribunale di Siena ha condannato a tre anni e mezzo l’ex presidente Giuseppe Mussari, l’ex direttore generale Antonio Vigni e l’ex direttore finanziario Gianluca Baldassarri, contiene passaggi molto duri.
Le operazioni derivate “Alexandria” con cui Mps ristrutturò nel 2009 il suo debito presso Nomura nascondevano, secondo i magistrati un “disegno criminoso”, e il top management di Rocca Salimbeni era perfettamente in grado di comprendere i rischi e, in particolare, il ruolo recitato da Mussari è stato “determinante”. Su queste pagine abbiamo già sottolineato più volte tutti gli aspetti poco convincenti dell’intera inchiesta Mps: concentrata alla fine su un profilo penale “laterale” (ostacolo alla vigilanza) fin troppo protettivo per la Vigilanza della Banca d’Italia. Alla quale saranno pure stati celati dei documenti specifici, ma “non poteva non sapere” qual era la reale situazione finanziaria di una delle prime cinque banche italiane: anche perché quella debolezza finanziaria – artificialmente sorretta da derivati alla fine fatali – era stata creata nel 2007 dall’acquisizione AntonVeneta, autorizzata senza obiezioni da Via Nazionale.
E in tempi in cui si mette sotto tiro la “governance” delle Popolari – ventilando peraltro l’intervento di Ubi Banca a Siena – tutte le indagini giudiziarie sono rimaste vaghe o superficiali su tutte le anomalie patologiche del caso senese: nel quale la governance di Pci-Pds-Ds-Pd è stata monolitica, continua negli ultimi dei 542 anni di storia del Monte e verticale dagli enti locali alle stanze dei bottoni della banca attraverso la Fondazione.
La “verità” sul Monte rimane lontana dalle pagine pubblicate ieri, il “crimine” è stato molto più grave, ma anche i “colpevoli” sono assai più numerosi e non è detto che i condannati lo siano in misura maggiore di altri che non sono stati mai neppure indagati.
A due anni dall’arrivo di Alessandro Profumo e Fabrizio Viola come “crisi manager” a Siena, crescono invece i dubbi e le apprensioni su un tentativo di turnaround che oggi il mercato boccia senza appello. Se non sembra un paradosso, i magistrati possono aver avuto un ruolo: non realizzando – alla fine – un “vero” processo al crac Montepaschi, l’unico avvenuto in Italia dopo il 2008, ma non direttamente collegato alle turbolenze dei mercati globali. È questa, in fondo, la grande attenuante del presidente e dell’amministratore delegato che hanno tenuto a galla il Monte, hanno condotto in porte una difficile ricapitalizzazione da 5 miliardi, hanno relegato la Fondazione in una posizione minoritaria, ma non hanno potuto evitare l’imbarazzante “maglia nera” allo stress test che in autunno ha avviato la vigilanza Bce.
È da allora che il Monte è alla deriva, con una falla patrimoniale ufficialmente calcolata in 2 miliardi di euro. A questa il mercato crede assai di più che alle motivazioni di una sentenza che non fa luce, né pulizia a Rocca Salimbeni. E la Banca d’Italia – ancora una volta a Siena – non sembra al meglio del suo prestigio e del suo potere.