Anche quest’anno Il Corriere della Sera è uscito a Capodanno – a edicole chiuse – con un numero speciale sponsorizzato dalla Fondazione Veronesi e distribuito principalmente sui canali multimediali. Il 3 gennaio il quotidiano è andato invece in edicola a prezzo maggiorato per la copia cartacea (da 1,40 a 1,50 euro: era 1,20 nel luglio del 2013). La redazione, attraverso il suo comitato, si è pubblicamente lamentata di entrambe le cose.

Rcs ha chiuso il 2014 con 218 milioni di perdita (507 nel 2013) e anche il risultato netto del 2014 è stimato in perdita (a settembre lo era già per 93 milioni). Se l’ebitda (margine industriale) è tornato positivo dopo più di un anno, la posizione finanziaria netta è ancora negativa per oltre mezzo miliardo: lo strascico del debito “senior” legato alle acquisizioni in Spagna non andate a buon fine. Una falla parzialmente turata di recente con un faticoso aumento di capitale necessario per evitare di portare i libri in tribunale.

Sempre l’1 gennaio, Il Sole 24 Ore ha dato notizia sul suo sito che il decreto “milleproroghe” ha tagliato l’integrazione straordinaria (70% rispetto al 60% base) per i cosiddetti “contratti di solidarietà”. È la situazione nella quale si trova dal febbraio 2012 lo stesso quotidiano controllato dalla Confindustria: i cui circa 250 giornalisti da tre anni godono di una “cassa integrazione strutturata” di tre giorni lavorativi al mese, che va ad ammortizzare parzialmente un corrispondente taglio del costo del lavoro (14%) concordato con il gruppo in stato di crisi presso il ministero del Welfare. Dal 2012 e fino a tutto il 2015 (termine non più rinnovabile) l’Inpgi, ente previdenziale dei giornalisti, reintegra il 60% della perdita di stipendio. Fino al 2013 un ulteriore 20% è stato integrato dallo Stato, quota scesa al 10% nel 2014 e ora azzerata.

Anche la rappresentanza interna dei giornalisti del Sole ha subito lamentato la limatura delle retribuzioni effettive – che ora supera il 5% – e ha chiesto all’azienda di aprire subito un confronto sul futuro della testata. Dopo perdite nette cumulate per 221 milioni negli ultimi cinque esercizi, anche la chiusura 2014 del Gruppo 24 Ore è prevista in rosso: alla scadenza dei 9 mesi restava negativo anche il risultato operativo del gruppo. E dopo l’esaurimento dei circa 300 milioni di cassa raccolti in Borsa con la quotazione del 2007, nel bilancio del Sole è comparso l’indebitamento bancario. Non ha portato benefici significativi, nel 2014, la rivendita di attività informatiche acquisite con una parte importante degli incassi da quotazione e mai sinergicamente integrate nella strategia del gruppo.

Dal prossimo 10 gennaio i contenuti giornalistici prodotti dai collaboratori della Stampa di Torino saranno pubblicabili anche sul Secolo XIX, la testata genovese con cui La Stampa si è recentemente fusa. Il compenso sarà lo stesso. Nel frattempo – informa con toni allarmati il sito www.francoabruzzo.it – La Stampaha interrotto il rapporto di lavoro con due collaboratori stabili dell’edizione di Savona, che avevano chiesto l’assunzione. La Stampa ha chiuso in perdita il 2012 (27 milioni) e il 2013 (13 milioni). Le aspettative per il 2014 parlavano di un rosso di 4-5 milioni: prima, naturalmente, della fusione con il Decimonono.

Il Corriere della Sera ha concordato con la redazione 70 prepensionamenti entro il 2017; Il Sole 24 Ore 38, in teoria da perfezionare entro la conclusione dello stato di crisi: su entrambi i piani pesano però le incognite dei tempi, della capienza e dei vincoli erogativi del “decreto Lotti”, che in estate ha stanziato 120 milioni pubblici in tre anni per pensionamenti anticipati e assunzioni di giovani giornalisti. La Stampa ha in via di completamento un programma da 32 uscite.

La cronaca – certamente per quella che viene tuttora considerata l’aristocrazia della stampa italiana- parla dunque da sola. E appare superfluo azzardare dettagli o distinzioni, citare cognomi, cercare responsabili (e i giornalisti, in fondo, non lo sembrano tanto meno degli editori che accusano). Resta l’analisi stringata di una crisi che sembra giunta alle sue forche caudine.

Uno: la recessione – in Italia/Europa più prolungata e depressiva che altrove – ha tolto quote strutturali di valore aggiunto alla media industry, certamente a quella storica. Ricavi diffusionali e pubblicitari non torneranno mai più quelli pre-2007 e rimarranno lontani dal coprire le esigenze ritenute irrinunciabili “qui e ora” dalla maggioranza degli stakeholder dell’editoria (azionisti, manager, giornalisti, ecc.).

Due: l’accelerazione definitiva del cambiamento di tecnologie e prodotti informativi e la caduta finale delle barriere linguistiche hanno messo a nudo l’arretratezza concorrenziale di un sistema editoriale “autarchico”. Come in un altro ventennio, gli editori-media italiani hanno beneficiato volentieri dei protezionismi (pubblici e privati, reali o illusori) e hanno investito in misura largamente insufficiente nella ristrutturazione innovativa.

La stessa diffusione su tablet e smartphone è stata sfruttata per lo più come salvagente d’emergenza, lasciando alle redazioni l’idea di poter continuare a fare i giornali come dieci o vent’anni fa, e agli editori quella di poter vendere i giornali senza stamparli. Pressoché nessun gruppo in Italia (come invece hanno già fatto molti e bene all’estero) ha ricostruito il prodotto, il marketing e l’organizzazione del lavoro, i prezzi e i costi sulle caratteristiche dei device multimediali.

Anche dopo le ultime elezioni europee, gli abbonati sui tablet hanno trovato al mattino giornali old, gli stessi cartacei dell’edicola, datati spesso alla mezzanotte. Invece sarebbe (stato) possibile far lavorare i giornalisti (in esubero) fino alle 6 del mattino, cercando ricavi veri sul mercato, con la produttività e la qualità, ovviamente senza novecentesche maggiorazioni di stipendio. Tutti invece (editori e giornalisti) preferiscono chiedere sussidi pubblici.

Tre: ciò che accomuna oggettivamente i casi aziendali di Rcs, Sole 24 Ore e La Stampa è l’assenza di proprietà e di management interni alla media industry, competitivi per primi in quel mercatoNei gruppi di controllo dei tre poli non vi sono imprenditori editoriali, o almeno investitori che mettono i loro quattrini (tutti quelli che servono e al momento giusto) e il necessario impegno di governance perché vogliono guadagnare con quel business. Che sono capaci di gestire un gruppo competitivo in quel mercato o che per farlo arruolano the best people in town. Che pagano bene manager e giornalisti che portano i risultati preventivati; li cacciano se non li portano; li pagano poco (e non distribuiscono dividendo) se l’azienda si sta ristrutturando.

Per quanto possa sempre contare, questa piccola nota insiste: l’unica exit strategy praticabile qui e ora è quella delle aggregazioni di prima fascia, che di per sé possono mettere in moto riorganizzazioni, liberare risorse all’interno dei gruppi, attirarne dall’esterno. L’intervento di veri partner industriali sembra altrettanto ineludibile: anche se avranno probabilmente passaporto non italiano. Farà ovviamente la differenza se l’avranno europeo, americano, cinese, emiratino: vigilare pro-attivamente sugli ingressi sarebbe uno dei compiti di un governo orientato a fare “politica industriale” di alto profilo nel settore.

L’alternativa sarebbe: liberalizzare l’industria e privatizzare la Rai, rottamando tutta “l’autarchia” (non solo il duopolio tv) e dando effettivi incentivi fiscali a operazioni di fusione, ristrutturazione, rilancio dell’occupazione giovanile qualificata. E obbligando editori e giornalisti a rottamare il loro (non più bel) vecchio mondo.