C’è stato un tempo — non lontanissimo: era già il dopoguerra inoltrato e il primo nucleo dell’Unione europea era già formato — in cui le bombe del terrorismo non erano targate Al-Qaeda o Isis e non scoppiavano su aerei russi in volo sul Sinai, sui bus londinesi, treni madrileni o ai cancelli dell’Etade de France, ma su un velivolo italiano in atterraggio a Milano Linate: quello del presidente-fondatore dell’Eni, Enrico Mattei. L’ex leader partigiano cattolico era finito nel mirino delle Sette Sorelle statunitensi del petrolio per ragioni ormai consegnate alla storia: l’Eni (l’Italia) si era messa a sfidare il vecchio colonialismo petrolifero occidentale con una nuova “diplomazia del greggio”, con una visione politico-economica dello sviluppo del Mediterraneo medio-orientale: dall’Algeria fino all’Iran, costeggiando l’attuale Russia. E Mattei non trattava con i Fratelli musulmani, ma con i leader di una possibile transizione laico-riformista — se non liberal-democratica — dell’area arabo-islamica. In Egitto dialogava ad esempio con Nasser, di cui è discendente il linea retta l’attuale presidente Al-Sisi, precipitosamente re-insediato dagli Usa dopo la primavera del Cairo, per il sollievo di Israele. 



Sessant’anni fa il presidente dell’Eni venne comunque eliminato brutalmente: che si sia trattato di attentato lo afferma senza esitazioni una recente sentenza della magistratura italiana. Resta invece allo stato di sospetto l’ipotesi che quel “lavoro sporco” sia stato compiuto da estremisti francesi anti-algerini dell’Oas, aiutati dalla mafia siciliana. Sullo sfondo l’ostilità manifesta all’Eni da parte dell’ente petrolifero di stato francese. 



C’è stato un tempo — meno lontano — in cui il premier italiano Bettino Craxi risolse il sequestro del transatlantico italiano “Achille Lauro” (con l’uccisione di un cittadino americano di religione ebraica) resistendo a una sorta di attacco militare statunitense in territorio italiano all’aereo che trasportava Abu Abbas, inviato dal leader palestinese Arafat come mediatore. Craxi morì in Tunisia (il paese più di ogni altro influenzato in via duratura dal “matteismo”), dov’è tuttora sepolto.

C’è stato un tempo — molto vicino — in cui la Francia ha promosso una guerra “non dichiarata” contro la Libia, governata dal colonnello Gheddafi: un dittatore ispiratore, fra l’altro, dell’attentato aereo di Lockerbie. Un leader sanguinario, ma anche un nemico implacabile del tribalismo fondamentalista nell’Africa araba. Quattro anni fa il presidente francese Sarkozy (oggi al centro di rumor su legami finanziari coperti con Gheddafi) impose un’esemplare e sanguinaria distruzione militare del regime libico. Nelle stesse settimane l’Italia era messa sotto violento attacco speculativo dai mercati finanziari e il premier Silvio Berlusconi veniva pubblicamente screditato dai leader europei per i suoi legami con Gheddafi e con il leader russo Vladimir Putin (il premier Renzi, ieri, non ha mancato di notare — davanti al parlamento — che i bombardamenti del 2011 furono compiuti anche per “compiacere le opinioni pubbliche di alcuni paesi” e hanno avuto per effetto la totale destabilizzazione della Libia, l’espandersi del califfato e l’escalation della crisi dei migranti e quindi dell’emergenza terrorismo in Europa). E’ superfluo rammentare che grazie agli accordi Italia-Libia sulle riparazioni dei danni di molte guerre, l’Eni — sempre l’Eni — si accingeva a rafforzare la sua presenza nell’industria estrattiva di Tripoli.



C’è stato un tempo vicinissimo — l’altroieri — in cui il presidente americano Barack Obama si è seduto con i soli interpreti a discutere con Putin sul da farsi nel debordante caos mediorientale: è lo stesso inquilino della Casa Bianca che continua a pretendere dall’Unione Europea il boicottaggio commerciale della Russia.

Le vittime di Parigi, come quelle di New York, di Madrid, di Londra e come quelle che purtroppo temiamo ancora di dover contare in Europa meritano il nostro sdegno e la nostra pietas. E gli europei hanno il diritto-dovere di difendere la loro civiltà, senza se e senza ma, contro l’ennesima “barbarie”, l’ennesima minaccia ostile che preme ai suoi confini. Ma gli stessi abitanti dell’Europa democratica non meritano di vedere tradita la loro storia con la retorica; né di vedersi proporre (o imporre) impegni comuni laddove troppo spesso continuano a prevalere gli interessi singoli. 

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