Il presidente dell’Abi, Antonio Patuelli si è detto “imbufalito” per come l’Ue ha costretto l’Italia a condurre a termine le risoluzioni di Banca Marche, Carife, Banca Etruria e CariChieti. Accanto a lui, sabato a un convegno a Brescia, il presidente (appena riconfermato) della Federcasse Alessandro Azzi, ha denunciato “l’ingiustizia” della chiamata in causa delle Bcc in uno Fondo di risoluzione nazionale che non funzionerà mai per il Credito cooperativo. Prima di loro era stato il leader delle Fondazioni bancarie, Giuseppe Guzzetti, ad accusare di “ottusità” la Commissione di Bruxelles, per i niet ripetuti – e sospetti – opposti a governo italiano e Bankitalia sul progetto originario di messa in sicurezza dei quattro gruppi commissariati.
Il presidente dell’Acri (sei Fondazioni hanno visto azzerato il loro patrimonio nel brusco passaggio dell’ultimo fine settimana) ha chiaramente puntato il dito contro l’ennesimo trattamento discriminatorio subito in Europa dal sistema bancario italiano: laddove numerose Casse di risparmio tedesche, crollate subito sotto il peso di investimenti azzardati in strumenti di finanza derivata, negli anni scorsi hanno invece potuto essere salvate da poderosi aiuti statali, negati invece del tutto nel 2015 all’Italia. Roma sta nel frattempo affannosamente adattando ai diktat Ue anche il progetto di bad bank-“lavanderia” di quasi 200 miliardi di sofferenze bancarie accumulate negli anni della recessione indotta dall ‘austerity.
Fuori dal coro, Alessandro Penati, ha chiesto ieri su Repubblica di “non prendersela con i tedeschi”. Lo ha chiesto all’Abi e ai suoi “banchieri”. Ma ha chiesto anche – forse soprattutto – una mea culpa ai regulator (italiani), anche se non specificati nella posizione istituzionale (governo o Bankitalia-Bce?) e tantomeno cronologica (quelli in carica oggi? Nel 2011? Nel 2008? Prima ancora?). È una curiosità non marginale che Penati sia un quasi-dipendente di Guzzetti: è infatti l’amministratore delegato do Polaris, la Sgr controllata dalla Fondazione Cariplo (grande azionista di Intesa Sanpaolo). E Polaris ha in gestione una parte rilevante del patrimonio finanziario della maggiore Fondazione italiana. Ferma restando la nota indipendenza di pensiero di Penati (e non è così per altri economisti-manager), solo in superficie Guzzetti e il suo asset manager la pensano diversamente.
Nei fatti il primo – che ha alle spalle un’importante esperienza di presidente di Regione e poi di senatore – stigmatizza l’ennesima (e non del tutto giustificata) prova di debolezza politica espressa in Europa dal governo Renzi e dalla Banca d’Italia. L’economista Penati coglie invece – della stessa situazione – le ineluttabili conseguenze economiche. Ed è a prova di qualsiaisi replica quando afferma che consiglieri e manager delle banche in dissesto sono stati scelti dagli azionisti a cominciare dalle Fondazioni (e questo vale anche per Mps e Carige) e continuando con le cooperative (non solo Etruria, ma anche Vicenza e Veneto).
È invece un po’ storicamente ingeneroso quando – da economista – considera l’attacco speculativo all’Italia nel 2011 uno schock esogeno: rinfacciando in fondo alle banche italiane di essere andate in crisi “troppo tardi” rispetto alle tedesche. In realtà queste ultime sono state in molti casi banche statali fallite subito dopo il crac Lehman, per aver giocato d’azzardo a Wall Street. Le banche italiane (nessuna controllata dallo Stato) sono finite invece nelle sabbie mobili successivamente, per l’austerità imposta all’ItalIa da Francia e Germania e controfirmata dagli italiani Mario Draghi (presidente designato della Bce) e Mario Monti, premier tecnico imposto dal presidente Giorgio Napolitano sotto la pressione di Ue e mercati.
Ed eccoci al punto: è Draghi il regulator innominato da tutti. Neppure il Movimento Cinque Stelle – che nel populismo anti-bancario e anti-europeo è nato e prosperato – sembra avere il coraggio di chiedere una commissione parlamentare – conoscita o d’inchiesta – come fu creata una decina d’anni fa dopo i casi Cirio e Parmalat. Se allora la commissione di allora vide duellare il governatore Antonio Fazio e il ministro del Tesoro Giulio Tremonti, oggi l’imputato unico sarebbe “di pietra”. Sarebbe Draghi: per i cinque anni ( 2006-2011) trascorsi come capo della vigilanza bancaria italiana (anzi: come “rifondatore” di Via Nazionale), ancora con pieni poteri. E poi per i quattro trascorsi al vertice della Bce: è, sotto la sua presidenza che sono state concepite e realizzate tutte le politiche economiche e le riforme creditizie (da Basilea-3 all’Unione bancaria) per cui oggi i banchieri italiani sono “imbufaliti”.
Forse non proprio tutti: non certamente quelli (da Siena a Genova, da Arezzo a Macerata, ma senza dimenticare Vicenza o i piani alti della UniCredit Tower di Milano) che Draghi avrebbe dovuto marcare stretto e prepensionare senza troppi complimenti. Ciò che non ha mai fatto: salvo poi voltarsi dall’altra parte quando la “sua” austerity iniziale – così filo tedesca e diversa dal buonismo espansionista di oggi – ha tagliato le gambe alle banche italiane che avevano resistito assai meglio di quelle tedesche, francesi od olandesi all’urto della crach di Wall Street. E poteva il “governatore per caso” Ignazio Visco intervenire con più celerità ed efficacia un sistema bancario ancora iper-vigilato da “Super-Mario” a Francoforte?