Il primo e il secondo quotidiano digitale in Italia – Corriere della Sera e Il Sole 24 Ore – condividono in questa fase più di un profilo se osservati con gli occhi della Borsa. I rispettivi gruppi editoriali si accingono a chiudere il 2015 in perdita: per Rcs si tratta del quinto rosso consecutivo, del sesto in sette anni; per Gruppo 24 Ore del settimo consecutivo. Entrambi i titoli, a Piazza Affari, sono ai minimi: Rcs vale in tutto 257 milioni; le azioni speciali del Sole (il 30% circa, la larga maggioranza resta di Confindustria ed è fuori mercato) capitalizzano 28 milioni.

Rcs ha convocato per mercoledì prossimo un’assemblea sollecitata dalle banche creditrici per rinnovare la delega per un aumento di capitale. Principalmente a questo fine il nuovo Ad, Laura Cioli sta approntando in fretta un nuovo masterplan: a quanto pare incentrato su nuovi tagli e vendite, dopo la recente cessione di Rcs Libri a Mondadori. L’editoriale del Corriere è di fatto senza un socio di riferimento: non lo è il primo azionista Fiat – ostentatamente disimpegnato altrove, anche nella media industry; non lo sono più le istituzioni bancarie milanesi (Intesa Sanpaolo, UniCredit, Mediobanca); non lo vuole più essere Diego Della Valle, mentre resta alla finestra Urbano Cairo, l’unico editore professionale presente nel nucleo stabile. Rcs ha concordato con la redazione del Corriere 47 uscite (prepensionamenti e incentivi) e un ricorso limitato alla cassa integrazione a rotazione. Analoghe misure di contenimento dei costi sono state varate alla Gazzetta dello Sport.

Al vertice del Gruppo 24 Ore tutti sono in scadenza, in termini sostanziali: l’azionista di controllo (il presidente pro-tempore di Confindustria Giorgio Squinzi), il presidente dell’editoriale Benito Benedini, l’amministratore delegato Donatella Treu, designata ancora da Emma Marcegaglia. Il gruppo non ha un piano strategico formalizzato e neppure la rivendita delle attività di software ha stabilizzato il bilancio. Invece i conti al 30 settembre scorso hanno segnalato un margine industriale ancora negativo e – anche in conseguenza di questo – l’emergere di indebitamento bancario.

Dopo un periodo di perdita prolungata e l’esaurimento delle risorse fresche (300 milioni) incamerate con la quotazione in Borsa del 2006, la necessità di una ricapitalizzazione del Sole non può più essere esclusa a priori. Il quotidiano, fra, l’altro, sta concludendo un secondo biennio di stato di crisi dichiarato presso il ministero del Welfare. Dal 2012 in poi il gruppo ha beneficiato di un taglio sostanzioso del costo del lavoro giornalistico (14%) e poligrafico grazie ad ammortizzatori sociali di categoria (Inpgi) e pubblici (Inps), in cambio di impegni sulla ristrutturazione e il risanamento. Il Sole – che ha preferito per ora non ricorrere a prepensionamenti – dovrà ora rinegoziare i tagli con la redazione e gli ammortizzatori alla luce delle nuove normative sui contratti di solidarietà.

Visti dal mercato finanziario, entrambi i gruppi appaiono tendenzialmente privi di tre fattori primari: una proprietà identificata e attiva, un progetto strategico non di sopravvivenza a breve, ma di ristrutturazione-rilancio sosteibile; last but not the least: capitali freschi. Questo sembra differenziarli dal principale competitor (Espresso-Repubblica), senza voler considerare – in Italia – i poli che fanno capo a Silvio Berlusconi, alla famiglia Agnelli, a Francesco Gaetano Caltagirone. I quali, peraltro, non sembrano neppure ufficiosamente interessati a intervenire su Rcs o Sole. Neppure dall’estero, d’altronde, si è avuto qualche segnale di attenzione a due brand storici dei media italiani: anzi il presidente di UniCredit Giuseppe Vita – fra l’altro presidente del colosso tedesco Axel Springer ed ex consigliere Rcs – ha escluso che il mercato dei giornali italiani possa attirare un grande editore internazionale.

Eppure la partita per il ricollocamento di Rcs e Sole difficilmente potrà essere rinviata all’infinito. E nessuno sbocco sembra a questo punto poter essere escluso. I mercati dispongono già di strumenti collaudati: l’acquisto del solo marchio è già stato sperimentato nel settore media al massimo livello (Jeff Bezos sul “Washington Post”). Il Financial Times è stato invece venduto in blocco – e a ottimo prezzo – a un gigante globale come il giapponese Nikkei (e senza troppi complimenti per stipendi e pensioni delle blasonate firme della City). Le Monde è stato rimesso in sesto – almeno per ora – con un buy-in nazionalistico di tre finanzieri (uno è Xavier Niel, neo-scalatore “in potenza” di Telecom Italia). Sulla carta stampata francese duellano da sempre i tycoon Bernard Arnault e François Pinault: miliardari del lusso niente affatto sconosciuti in Italia, anzitutto perché al di qua delle Alpi vivono molti loro simili.