“Saranno tutelati i risparmiatori truffati”, ha detto oggi il premier Renzi a proposito del caso Banca Etruria & C. Nulla da dire, anzi: non c’era bisogno che lo ripetesse il presidente del Consiglio in una conferenza stampa di fine anno. Chi è stato “truffato” – cioè è stato vittima di un reato – è tutelato dall’articolo 640 del codice penale (Libro II, Titolo XIII, Capo II) in vigore dal 1930. La sua formulazione è proverbiale nel “legalese” italiano: “Chiunque, con artifizi o raggiri, inducendo taluno in errore, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, è punibile etc etc.”. E lo stato di diritto – almeno finora – inizia alle ore zero del primo gennaio di ogni anno e dura fino alla mezzanotte del 31 dicembre: può essere modificato dalla sovranità parlamentare, ma le istituzioni non dovrebbero chiarirne l’esistenza ogni giorno (dovrebbero invece, ogni giorno, farlo funzionare in modo efficiente).
La notizie – dalla sottolineatura di Renzi – sono altre: almeno due. La prima è che dopo due settimane di demagogia rutilante – iniziata con la promessa del ministro dell’Economia di 300 milioni di rimborsi e risarcimenti “umanitari” a favore di una platea indefinita di risparmiatori traditi – il governo sembra voler riportare la vicenda nell’alveo della legalità, più ancora: della normalità di mercato in cui anche l’Italia è entrata almeno dai Trattati di Maastricht del 1992.
Chi investe sui mercati finanziari e perde i suoi quattrini non può rivolgersi allo Stato per riavere i suoi soldi: il rischio lo ha corso lui su un mercato privato, a fronte della prospettiva di un profitto finanziario (interesse o plusvalenza). Può rivolgersi all’autorità giudiziaria se ritiene di essere stato vittima di “artifizi e raggiri”: in concreto di essere stato informato male o – peggio e soprattutto – di aver ricevuto informazioni false e fuorvianti prima di acquistare uno strumento d’investimento. Ma la collettività non può essere considerata corresponsabile per via fiscale delle perdite e dei danni subiti da chi ha acquistato bond subordinati di Banca Etruria o di Banca Marche e ha perso tutto nelle “risoluzioni” (ispirate per di più al nuovo principio di non responsabilità degli Stati nei dissesti bancari) . Il risparmiatore in crisi non può che agire per via legale: ad esempio, unendosi a una delle class action che sono già in corso di preparazione presso alcuni grandi studi legali.
Ma la capriola del premier – al pari di numerose altre – non fa del tutto ricadere in piedi il dossier-rimborsi. Un decreto del governo ha infatti già istituito il “fondo salva-risparmiatori”, affidando la procedura all strutture arbitrali gestite dall’Anac, l’Autorià Anticorruzione guidata da Raffaele Cantone. Che è sì un magistrato, ma non “il” magistrato ordinario chiamato ad amministrare la giustizia penale con le procedure e i criteri stabiliti dai codici e da tutte le altre fonti del diritto. Cantone è tutt’altro che il “giudice naturale” previsto in via generale dalla Costituzione: anzi è apparentemente due volte “innaturale”. Non opera in un ufficio giudiziario e la sua Autorità ha come missione istituzionale la lotta alla corruzione nella Pubblica amministrazione, non la tutela del risparmio su un mercato privato.
Ma quella attorno a Banca Etruria è una storia giudiziaria che è appena iniziata. Non più tardi di ieri il Csm ha difeso la correttezza e l’indipendenza del Procuratore di Arezzo Roberto Rossi: titolare delle diverse indagini sul dissesto della banca locale, ma anche di una consulenza con Palazzo Chigi. Non era una decisione del tutto attesa quella di Palazzo dei Marescialli sul presunto conflitto d’interessi, laddove l’atmosfera era resa un po’ opaca dalla presenza come consigliere dell’ex sindaco di Arezzo, Giuseppe Fanfani. Il passaggio, tuttavia, ha una sua leggibilità.
Rossi ha – platealmente – ricevuto soltanto lo scorso 21 dicembre l’ormai famoso rapporto ispettivo della Banca d’Italia che già alla fine del 2014 descriveva in dettaglio la grave situazione economico-patrimoniale dell’Etruria e le pesanti anomali riscontrate nella governance (anche da parte del vicepresidente Pierluigi Boschi, padre del ministro per le Riforme). Quindi – almeno formalmente – la Procura di Arezzo non aveva notitiae criminis effettive per aprire fascicoli sulla banca. Da qualche giorno, invece, ne dispone: e dall’autorità di vigilanza bancaria nazionale, forse l’unica veramente legittimata a darne. È ora dunque prevedibile che le indagini procederanno e non sono affatto escluse iscrizioni al registro degli indagati (ma se dovesse accadere a papà Boschi, non va dimenticato che anche Tiziano Renzi, padre del premier, lo è stato).
La mossa del Csm – ineccepibile nella forma e nella sostanza, per quanto sempre un pizzico corporativa – ri-pone tuttavia la questione del modus operandi della vigilanza Banca d’Italia. Perché il rapporto d’ispezione – che più di un quotidiano sta pubblicando a bocconi, sulla falsariga della diffusione dei brogliacci d’intercettazione – è rimasto fermo in Via Nazionale? E lì è stato portato a conoscenza del direttorio (del governatore Ignazio Visco, del direttore generale Salvatore Rossi, del vicedirettore generale Fabio Panetta, membro del consiglio di sorveglianza Bce)? Il commissariamento dell’Etruria, deciso in tutta fretta nel gennaio scorso, dopo la riforma-blitz delle Popolari, fa pensare di non si sia fermato sulla scrivania del capo della vigilanza Carmelo Barbagallo. Ma perché, pur dopo, il commissariamento, dei dettagli scottanti del caso Etruria non sono stati informati – apparentemente – né la Procura competente, né il consiglio di sorveglianza Bce, nè in ultima istanza il presidente della Bce, Mario Draghi? Ma Francoforte “poteva non sapere”?
Sarà pur vero – come si affanna a raccomandare in questi giorni soprattutto Il Sole-24 Ore – che una commissione parlamentare d’inchiesta sulla vigilanza bancaria in Italia rischia di minare una fiducia nuovamente scossa degli italiani nel loro sistema bancario. Però – non ci stancheremo mai di ricordarlo – appena una decina d’anni fa (premier Silvio Berlusconi, presidente della Repubblica l’ex governatore Carlo Azeglio Ciampi) la democrazia italiana – e Il Sole 24 Ore per primo – non ebbero remore nel mettere in stato d’accusa il governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio, spingendolo alle dimissioni con un’ondata di intercettazioni diffuse in diretta sui giornali, e condannandolo due volte in Cassazione per aver vigilato male sulle banche italiane.