Il sistema bancario italiano sarà pure “solido”, come si è affrettato a ribadire ieri il premier Matteo Renzi da Bruxelles. Se però “l’Europa e i mercati” dovessero far fede sulle ultime comunicazioni ufficiali di Borsa, Banca d’Italia e Tesoro – nonché sui tweet di un ministro della Repubblica – non potrebbero che concludere che il sistema bancario nazionale è particolarmente sotto stress in una sola regione: la Toscana di Renzi (e del ministro delle Riforme, Maria Elena Boschi). Uno stress che – a dispetto dei periodici test di vigilanza di Eba e Bce – sembra ormai rientrato nell’hub di Milano, dove UniCredit, Intesa Sanpaolo e Bpm hanno presentato conti in ordine e cedole in pagamento ai soci.



La Toscana (5,3 miliardi di rosso e semi-nazionalizzazione per il Montepaschi di Siena; commissariamento della Banca Etruria di Arezzo) sembra invece star molto peggio anche del Nordest: dove pure Banco Popolare, Popolare di Vicenza e Veneto Banca hanno accusato perdite non marginali per la severa pulizia dei bilanci dalle sofferenze creditizie. Mps, Banca Etruria, ma anche Credito cooperativo fiorentino, la Bcc posta in liquidazione coatta dal Tesoro ancora nel 2012. Non c’è solo un concentrato di settore bancario, ma anche di quello che un tempo si sarebbe detto l’arco costituzionale della politica nei crac più sonori maturati in Italia dopo il 2008. La roccaforte di quel Pci che – da sempre – “ha una banca”. Una città il cui odore misto di oro e di confraternite pare “stantìo” al direttore de Il Corriere della Sera. Un mini-istituto della periferia fiorentina presieduto dal plenipotenziario di Forza Italia Denis Verdini e cancellato da Tesoro e Bankitalia per “gravi irregolarità”.



È qui che la gestione “non sana e non prudente” ha oltrepassato i confini della polemica populistica o dell’inchiesta giudiziaria aggressiva (come quella aperta su Ubi) ed è approdata ai provvedimenti amministrativi più drastici. Una crisi divenuta “sistemica”, ma lungo la dimensione meno attesa e invece più imbarazzante per un premier entrato in tackle sulle grandi Popolari del Lombardo-veneto e pronto ora a nuovi interventi rottamatori sulle Fondazioni (non su quella auto-affondata di Siena, ma su quelle di Milano, Torino, Verona, ecc.).

Non basta un “cinguettìo” del ministro Boschi – azionista e figlia di un consigliere di Banca Etruria – a distillare una presunta “dura lex” del renzismo contro gli incroci pericolosi fra finanza e banca. Non basta nel giorno in cui – nelle stesse ore – la Procura di Roma apre un fascicolo sui 10 milioni di euro di profitti di Borsa realizzati dopo la fuga di notizie sul decreto Popolari; e una nota del Tesoro a mercati aperti sulla conversione dei Monti-bond fa guadagnare di colpo il 22% al titolo Montepaschi.  



Non basta quando i medesimi Renzi e il suo ministro del Tesoro Pier Carlo Padoan (a lungo direttore scientifico della Fondazione Italianeuropei di Giuliano Amato e Massimo D’Alema) un giorno condannano a morte sul mercato le Popolari “degli altri” e pochi giorni dopo resuscitano il “loro” Mps ristatalizzandolo e completando l’azione “tombale” dei magistrati di Siena (caso chiuso per semplice ostacolo alle autorità di vigilanza, altro che bancarotta).