“Non c’è mondo al di fuori delle mura di Verona, ma solo purgatorio e inferno”. Shakespeare non era mai stato nella città scaligera, ma ne conosceva bene il profondo e peculiare campanilismo quando scolpì questo famoso verso in “Romero e Giulietta”. Ed è difficile non tornarci ogni volta che Verona sale sulla ribalta pubblica del paese: non spesso, per la verità, a riprova che le mura scespiriane hanno sempre soprattutto protetto, circoscritto, alla fine anche un po’ nascosto la forza della città. (Per quello che vale il calcio come sintesi storico-civile – cioè parecchio in Italia e forse in Europa – Verona schiera oggi nel massimo campionato nazionale due squadre come Roma, Milano, Torino e Genova; come Madrid e Lisbona. Barcellona e Manchester). Giunse da Verona a Venezia il primo presidente della Regione Veneto, Angelo Tomelleri: ma dopo gli anni 70 poi più nessun altro è emerso dal Veneto più occidentale e “lombardo”.
Fino a Luca Zaia, presidente in carica ricandidato, ha sempre prevalso il cuore orientale: la terraferma veneziana. Trevigiano come Zaia è stato il super-presidente veneto di sempre, il dc doroteo Carlo Bernini. Da Padova è venuto Giancarlo Galan, unico pro-console di Forza Italia.
Non che l’humus sociopolitico fosse – o sia tuttora – molto diverso: il vecchio moderatismo democristiano – molto interclassista – era e resta radicato e trasversale dall’Adige al Piave, dal Cadore al Polesine. Ed è stato travasato con eguale facilità sia nell’elettorato leghista di Flavio Tosi (super-sindaco di Verona) sia in quello – altrettanto leghista – di Zaia, ministro e poi primo leader del Carroccio a Palazzo Balbi. Però nella drammatica escalation interna alla Lega, sfociata nella clamorosa decisione del sindaco di Verona di candidarsi in autonomia, riaffiora qualcosa che supera le semplici rivalità personali all’interno del Carroccio. E che riporta a un’attualità – ma anche a una storia – più complesse di quella raccontata dalle cronache politiche.
Per esempio: Giorgio Zanotto – predecessore di Tosi in una città che ha tradizione di sindaci “forti” nel profilo e nel consenso – non lasciò mai Verona, tanto meno per far politica in Regione o a Roma (e da fondatore della Dc veneta durante la Resistenza ne aveva tutte la chance). A partire dagli anni ’80 s’impegnò invece a fare della Popolare (allora piccola banca provinciale) un gruppo nazionale. In vent’anni ci riuscì: oggi il Banco Popolare – guidato dal suo successore Carlo Fratta Pasini – è la quarta banca italiana. Certo, è un po’ acciaccata dalla crisi e ora è pure sotto pressione da parte del governo Renzi per la trasformazione obbligatoria in Spa. Ma da Verona è giunta anche la prima risposta realistica al colpo di frusta del governo.
“O costruiamo aggregazioni con altre Popolari, oppure qualche gruppo estero ci scalerà”, ha scritto senza mezzi termini il presidente alle decine di migliaia di soci del Banco. Di più, tre giorni fa, ha aggiunto senza problemi un altro tassello di concretezza: “E necessario che costituiamo un nocciolo duro per presidiare la nostra Popolare una volta trasformata in Spa” (curiosamente lo ha detto a Milano, a un tavolo promosso fra gli altri dalla Regione Lombardia di Roberto Maroni) . “E’ l’ora delle Fondazioni”, ha aggiunto con una inequivocabile chiamata intra moenia: entro le mura di Verona – assieme a una delle più forti associazioni industriali del paese – ha infatti sede la Fondazione CariVerona, fra le maggiori italiane assieme a Cariplo e San Paolo.

La Fondazione presieduta da Paolo Biasi – di cui il Comune di Verona è il più importante stakeholder – ha una storia altrettanto ricca di quella della Popolare di Zanotto. E’ la Fondazione veronese che aggrega quelle di Cassa Torino e Cassamarca nel dare origine a UniCredit: la storica corazzata di Alessandro Profumo. E’ Verona che sostiene UniCredit nella prima fusione bancaria transeuropea con la tedesca Hvb. E’ a Verona una delle cabine di regia della combattuta “battaglia delle Generali” che portò all’uscita di Vincenzo Maranghi da Mediobanca. 
Dopo vent’anni la Fondazione di Biasi è ora a un ennesimo bivio. Una prima opzione, al momento principale, è giocare una volta di più a tutto campo la delicata partita per il rinnovo dei vertici di UniCredit: di cui l’ente è ancora socio importante, anche se dovrà ridurre la quota dopo l’autoriforma di categoria concordata nei giorni scorsi fra Acri e Tesoro. L’alternativa, sempre meno teorica e apparentemente praticabile vede invece la Fondazione spostare il suo impegno a presidio della “nuova Popolare Spa”: probabilmente in ulteriore crescita dopo una fusione (si vedrà se in direzione di Milano o verso Nordest).
Chi può dire se fra i due scacchieri – la “ribellione” di Tosi e le grandi manovre “controffensive” di Popolare e Fondazione – vi sia, vi possa essere, vi sarà alla prova dei fatti qualche interazione? Shakespeare difficilmente mostrerebbe dubbi: dentro le mura di Verona a nessuno è mai piaciuto perdere e nessuno – finora – ha mai perso per davvero. Tutti hanno sempre badato a scalare, riscalare, tenere la classifica. Il Verona uno scudetto è riuscito a vincerlo, non nell’anteguerra, contro la Juventus. E nell’annata magica del Chievo, una decina d’anni fa, il derby col Verona era più importante di quello di Milano.
Mai fidarsi di una Verona che – dentro le sue mura – prepara battaglie. E mai fidarsi dell’esito della prima battaglia. E magari neppure della seconda.