Il Sole 24 Ore chiude in perdita anche il 2014 e dedica due pagine di inchiesta per certificare l’inaridimento strutturale dei ricavi di un’industria editoriale italiana ancora troppo tradizionale. Repubblica (il cui gruppo ha difeso l’utile nell’ultimo esercizio) non rinuncia a ospitare nella sua sezione culturale della domenica un affresco di insider-outsider della web industry globale: internet, dicono questi anti-guru, non ci ha affatto resi più liberi e più ricchi, ma – al contrario – più poveri, meno autonomi e, in un numero crescente di casi, più disoccupati. Il Corriere della Sera (ancora oberato di enormi perdite da debiti sulle acquisizioni spagnole) continua a far notizia soprattutto per l’estenuante procedura di sostituzione del presidente e del direttore e per il progetto di cessione in blocco della divisione libri.

È in questa cornice di cifre e umori che la grande stampa nazionale scalda i motori per l’apertura di un tavolo per l’editoria alla Presidenza del Consiglio: Fieg e Fnsi si presenteranno da Luca Lotti, braccio operativo del premier Matteo Renzi anche sul delicato fronte Rai & media. Maurizio Costa (presidente Fieg, ex amministratore delegato della Mondadori e candidato presidente di Rcs) ha già avuto modo di sintetizzare la posizione degli editori di giornali italiani: la crisi ha effetti insostenibili essenzialmente per lo strapotere di Google e la contromisura immediata è una tassazione straordinaria sulla principale e simbolica web company da destinare ad aiuti altrettanto straordinari agli editori e ai giornalisti italiani (la posizione è ovviamente condivisa in blocco dalla Fnsi).

Che ciascuna “parte sociale” faccia la sua parte non è sorprendente e tanto meno scandaloso. Però – e la posizione viene oggettivamente ribadita sul giornale di questa giovane web media company – il lecito e motivato lobbyismo dell’editoria e del giornalismo nazionali sembra datato così come le strategie e le gestioni dei diversi gruppi media che chiederanno quattrini pubblici in nome di un interesse generale e nazionale che – ultimamente – ha giustificato l’investimento statale di salvataggio dell’Ilva (che è stata in ogni caso commissariata). 

Così come tutti sanno – sappiamo – che l’industria siderurgica è infinitamente cambiata rispetto ai tempi in cui lo Stato costruì il gigantesco impianto di Taranto, tutti sanno – sappiamo – che l’industria dell’informazione è sideralmente cambiata rispetto a quando in Italia si stampavano e vendevano sette milioni di copie di quotidiani cartacei. Le imprese editoriali italiane – anche se con ritmi diversi – sono cambiate a velocità molto bassa in un settore in cui tutto è rivoluzionato: la domanda di contenuti, la tecnologia, la struttura concorrenziale del mercato e l’imprenditoria che decide di investirvi e giocarvi.

Google e le sue sorelle vengono oggi trattate alla stregua dell’Isis perché hanno abbattuto i costi e i prezzi dell’accesso all’informazione diffusa. E questo è certamente un grosso problema per le imprese che in Italia producono informazione, per i loro azionisti e dipendenti: ma è essenzialmente un problema loro, esattamente come in altri paesi europei. Un problema industriale, non di democrazia: quest’ultima è “a bassa intensità” dove Google viene tenuta fuori dalla porta – come in Cina – o dove – come ora in Turchia – un sito può essere chiuso in 24 ore.

Il governo ha il diritto e il dovere di fare politica industriale: se lo ritiene anche nel settore media, anche stanziando risorse pubbliche, rispondendone al Parlamento ed entro i vincoli Ue di bilancio. Ma – per l’auto o per l’acciaio, per il trasporto aereo o per i giornali – i problemi industriali non possono che risolversi sul mercato. Le “compagnie di bandiera” non esistono più e i giovani italiani (o francesi o tedeschi) volano benissimo “low cost”, su aerei gestiti da irlandesi e guidati da piloti italiani se sono bravi. E se un imprenditore italiano si dimostrerà bravo da (ri)fondare una nuova compagnia – con capitali italiani o non italiani – l’Azienda-Italia tornerà ad avere il business aereo nel suo portfolio, altrimenti no. 

Se l’Azienda-Italia vuole continuare a dire qualcosa nella media industry non può che puntare su nuovi imprenditori e nuovi professionisti: ridurre i sussidi pubblici alle vecchie agenzie per obbligarle a fondersi – e questo solo come test per future aggregazioni fra le capogruppo – rischia di essere l’ennesima mossa antidiluviana. Il mondo di Apple Tv e di Google Bank è domattina, è stamattina: non gioca contro violando chissà quali regole. L’Italia e i suoi giornali non li vede proprio. I ricavi diffusionali e pubblicitari non si sono “inariditi”: ci sono sempre, esattamente come il fatturato mondiale dell’industria dell’auto non è affatto sparito. Sono i ricavi italiani di Fca, è il valore aggiunto prodotto in Italia dal Lingotto, a essere molto diversi. Ma il Ceo Sergio Marchionne è il primo a dire che non è un problema per il Paese.