Il Tesoro vende il 5,7% di Enel e ha messo in cantiere la privatizzazione delle Poste entro l’anno. Il Tesoro entra con il 4% in Mps, commissaria la Popolare dell’Etruria e si accinge a gestire la riforma della Popolari-Spa. Il Tesoro ha pronto per firma “l’atto negoziale” con le Fondazioni e attraverso questo vigilerà più strettamente su UniCredit e Intesa Sanpaolo. Il Tesoro ha in mano il dossier tecnico dell’Opa Rai Way e scriverà un pezzo della riforma della stessa Rai. Il Tesoro controlla la Cassa depositi e prestiti e quindi un’infinità di progetti-Paese, a cominciare da quello della banda larga, che può decidere sui destini di Telecom.

Non è sorprendente che attorno a via XX settembre vi sia molta agitazione: molta di più di quanta ve ne fosse pochi mesi fa attorno alla spending review di Carlo Cottarelli. Non stupisce l’estensione del nuovo sisma attorno all’inchiesta della Procura di Trani sui derivati sul debito pubblico italiano: che punta sui pagamenti da 3,7 miliardi effettuati dal governo Monti a Morgan Stanley all’inizio del 2012. Ma accende i fari soprattutto sul ruolo di Domenico Siniscalco (Direttore generale e poi ministro del Tesoro e infine vicepresidente per l’Europa della stessa Morgan Stanley) e – molto più indietro – su chi stipulò quei contratti più di vent’anni fa: Mario Draghi, Direttore generale dell’epoca al ministero, chiamato dai governi tecnici di Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi.

La Direzione generale del Tesoro e il suo ricambio imminente: questo sembra essere uno degli epicentri del sisma. Se non addirittura il principale: lo si leggeva ieri in controluce anche nel titolo d’apertura de Il Corriere della Sera, dedicato ai criteri di selezione dei dirigenti pubblici (dall’interno o dall’esterno?). Ma perfino Eugenio Scalfari, ieri, era preoccupato di ricordare al premier Matteo Renzi quanto debba essere grato a Draghi. E non va dimenticato che la prima bordata d’artiglieria sulla cattiva gestione (recente) dei derivati sul debito pubblico sia giunta da Oltre Atlantico: con il calibro di Luigi Zingales, di alterne fedeltà draghiane o renziane e comunque sempre in tempi di nomine.

In concreto, Vincenzo La Via si avvia a concludere al Tesoro una stagione breve e senza spunti. Era approdato alla Direzione generale del ministero come successore di Vittorio Grilli, divenuto ministro con Monti. Proveniente dal Fondo monetario internazionale e transitato da Intesa Sanpaolo ha continuato a incarnare con basso profilo un ruolo strettamente tecnocratico: forse non incompatibile con il ministro-tecnico Fabrizio Saccomanni nel prudente governo Letta.

Non è inevitabile che Renzi, accentratore superdecisionista, stia accelerando nella ricerca di un suo super-tecnocrate: di una figura che, sulla carta, sembra chiamata ad accreditare a 360 gradi le scelte che Palazzo Chigi va elaborando su dossier finanziari delicati. Ed è evidente probabilmente al premier stesso che non gli è possibile manovrare con i mega-consiglieri che vanno riempiendo gli uffici della Presidenza: da Yoram Gutgeld ad Andrea Guerra.

È certo che la scelta di un nuovo Direttore generale segnerà un cambio di stagione, anche se non è detto che marcherà al Tesoro una rupture con il management di lungo periodo di stampo ciampiano-draghiano. Certo, se a occupare la poltrona di dirigente-capo al ministero fosse una figura del profilo di Lorenzo Bini Smaghi – anzitutto fiorentino come il premier – l’intera “amministrazione Renzi” registrerebbe un cambiamento superiore forse a quello di un mini-rimpasto di ministri.