Difficile che il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, nelle Considerazioni finali di domani si dilunghi sulla riforma delle Popolari, tanto meno facendo nomi. Anche per lui, del resto, sembra aver parlato l’altra autorità monetaria nazionale: il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan. Interpellato da Repubblica sui destini di Mps, Padoan ha detto che il governo incoraggia certamente l’intero sistema creditizio a consolidarsi con aggregazioni, anche se rimarrà “osservatore di ciò che accade sul mercato”.

Non sarà del tutto così. Il Tesoro è destinato a giocare in prima battuta su almeno due fronti. Il primo e più importante è il lancio della bad bank per ripulire i bilanci delle banche italiane da molte decine di miliardi di crediti andati in fumo durante la grande recessione: sarà necessario trovare risorse per le agevolazioni fiscali e convincere l’Ue che non si tratta di aiuti di Stato. Un secondo fronte riguarda le Fondazioni, sottoposte alla vigilanza diretta di via XX Settembre: a maggior ragione dopo la recente autoriforma siglata dall’Acri presso il Mef. Potranno le Fondazioni – e in che misura – entrare come azioniste stabili nei “noccioli duri” che entro un anno o poco più dovranno presidiare le nuove Popolari Spa?

Il nuovo silenzio di Padoan – almeno finora – sembra collimare sul sostanziale silenzio dell’Atto negoziale Acri-Mef sulla questione: non vi sono pregiudiziali esplicite all’ingresso degli enti nelle Popolari nel rispetto del nuovo “paletto” fissato per gli investimenti finanziari singoli (non più di un terzo del patrimonio totale di una Fondazione). Certo il Tesoro potrà valutare caso per caso se autorizzare o no un singolo ente a partecipare a una singola operazione. Nel frattempo Padoan ribadisce però – con una risposta “silenziosa” a una domanda “con nome” – di non pretendere che un’operazione di riassetto fra Popolari e/o lo spostamento degli investimenti di qualche grande Fondazione venga indirizzato al salvataggio del Montepaschi: nel quale il Tesoro è divenuto (sicuramente controvoglia) azionista, nella speranza che già l’aumento di capitale in rampa di lancio in questi giorni stabilizzi il Monte e lo renda appetibile per un’aggregazione “di mercato”.

Il Tesoro – almeno formalmente – non sembra quindi esercitare alcun pressing su Ubi: la grande Popolare di Bergamo e Brescia, da molti mesi indicata come candidata ufficiosa delle autorità creditizie al ruolo di “cavaliere bianco” di Siena. Un ruolo cui certamente Ubi non aspira: mentre dal Tesoro giunge ora alle Popolari “riformande” un messaggio tutto sommato distensivo. Faccia il mercato, facciano le Popolari: si facciano le aggregazioni che riescono realisticamente a maturare. Che sono, sulla carta, un paio.

Una – a Nordovest – è quella fra la Popolare di Milano e quella dell’Emilia Romagna: con un second step già scritto (l’aggancio di Carige e forse di Banca Marche). Solo una Bpm “aggregante” può gestire le prevedibili resistenze finali dei dipendenti-soci: depotenziati rispetto al passato, ma per nulla emarginati (la probabile scelta di due advisor per i due organi della governance è significativa di una prevedibile problematicità concreta sulle alleanze).

La vera “Super-Popolare” in cantiere resta invece quella fra Ubi e Banco Popolare. Sono la terza e la quarta banca italiana: nascerebbe un aspirante terzo “campione nazionale” alle spalle di Intesa Sanpaolo e UniCredit. E sarebbe – nelle premesse – una “banca commerciale di territorio” (l’etichetta è dell’economista bocconiano Donato Masciandaro) come forse nessuno dei primi due campioni riesce più a essere. Sarebbe un’istituzione compatta costruita su due poli complementari su un territorio omogeneo: sulla dorsale Bergamo-Brescia-Verona, con agganci strategici ad altri “campanili” come Novara, Cuneo, Lodi, Lucca.

L’azionariato potrebbe contare ancora su una forte componente diffusa, e con l’emergere di investitori privati locali che non mancano in alcuno dei mercati di riferimento. Fondazioni azioniste ve ne sono già – CariVerona, CariCuneo, Monte di Lombardia – e sarebbe sufficiente autorizzare un loro incremento di quota: anche temporaneo. Un nucleo stabile del 15-20% potrebbe fare da reale baricentro a una platea più ampia di soci di riferimento: comprendente anche partner esteri o grandi fondi, già presenti del resto in entrambi i gruppi. Risorse di management non ne mancano: così come mercati ampi e profondi sia nei servizi finanziari alle persone, nella gestione del risparmio delle famiglie, nella finanza per l’impresa.

Nel 1997 Goldman Sachs raccomandò alla fine alla Fondazione Cariplo di preferire l’offerta dell’Ambroveneto a quella di Comit-Mediobanca anche per la maggior “affinità culturale” fra Cariplo e il Banco. Sarà interessante vedere se Giovanni Bazoli – personaggio tuttora decisivo per le strategie di Ubi – sarà o meno attivo nel promuovere un’aggregazione che tuteli un “valore intangibile” ancor più rilevante nel dopo-crisi. Si tratta della solidità residua del tessuto socio-economico di un’Italia del Nord che non è mai stata quella ascritta dal populismo pseudo-federalista (ormai “sconfitto dalla sbornia dell’ultimo ventennio”, ha sentenziato sabato il neo-vicedirettore de Il Corriere della Sera, Antonio Polito).

È un’Italia del Nord che, alla resa dei conti, ha sofferto anche i tentativi di imposizione estrema del turbo-liberismo globalista. E che potrebbe mostrare – proprio attraverso una Super-Popolare degna di questo nome – che il futuro dell’Azienda-Paese non è sempre quello deciso per decreto dal premier amico della City: che non c’è bisogno di assimilare per forza una Popolare alle Spa e renderla scalabile in Borsa per rilanciare il credito in Italia, per ridare spazio a imprese bancarie che hanno retto alla crisi meglio di altre.

Vedremo, naturalmente, come si muoveranno anche gli altri possibili decision-maker della vicendaa cominciare dal presidente del Banco Popolare, Carlo Fratta Pasini. La Borsa farà il suo gioco, ma non sembra più il player dominante. L’estate sarà certamente di lavoro: e non è detto che fasi di turbolenza sui mercati finanziari (non da escludere) possano accelerare le riflessioni e le decisioni. 

 

(A Bergamo, a Brescia, a Verona ci sono giornali locali, buoni e storici giornali locali: naturalmente colpiti duramente dal mix di crisi economica e di cambiamento dell’industria-media. Una Super-Popolare – con una componente di controllo comune alle proprietà dei quotidiani delle rispettive province – sarebbe una precondizione allo studio di un’integrazione fra le rispettive editoriali: prima che anche loro finiscano come finirebbero le Popolari se non si aggregassero. Cioè comprate molto a buon mercato, assieme ai rispettivi localismi che hanno valore fino a che vengono tenuti vitali ogni giorno con impegni concreti)