Nel caso Cassa Depositi e Prestiti spiccano micro-dati altamente simbolici, utili però a valutazioni più macro sul piano politico-economico.
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Il ricambio “discrezionale” deciso dal premier Matteo Renzi ai vertici della Cdp – dopo due settimane di telenovela mediatica – è stato annunciato venerdì pomeriggio da un lungo “Comunicato del Presidente del Consiglio” sul sito www.governo.it. Un passo abbastanza inusitato a memoria di chi tiene d’occhio il confine fra politica e finanza.
La Cdp è da quasi dieci anni una società per azioni, per ora non quotata: ha come azionista di controllo il Tesoro e come soci di minoranza 64 Fondazioni. La governance della Cassa (che ora è vigilata dalla Banca d’Italia in quanto svolge attività d’intermediazione finanziaria e bancaria) è dettagliata dalla legge e dallo statuto in chiave di autonomia. La “nuova Cassa” è stata del resto inventata – almeno inizialmente – per scorporare in un’entità formalmente “non pubblica” una parte della finanza pubblica: questo per far rientrare la contabilità pubblica italiana nei parametri Ue. La Cassa – che emette sui titoli di debito sui mercati finanziari e opera in molti segmenti della finanza di mercato (come il private equity) – è ormai riconosciuta come un’istituzione finanziaria che si muove sul mercato criteri imprenditoriali.
Il “comunicato del premier” – politicamente prolisso, con appiccicata una vaga indicazione sulla politica dei dividendi 2015 della Cassa – sintetizza in sé la cancellazione di un lungo tentativo di costruire una “banca di sviluppo”: un’entità che – soprattutto dopo il 2008 – si stava rivelando uno strumento di recovery della massima importanza. Che Paese occidentale è, adesso, quello in cui un caudillo “ri-nazionalizza” personalmente una banca da 420 miliardi di bilancio? Gli italiani metteranno ancora con tranquillità i loro risparmi alle Poste sapendo che su di essi può decidere discrezionalmente il capo del Governo, magari per bruciare miliardi nei forni decotti dell’Ilva? Gli investitori istituzionali compreranno ancora covered-bond della Cdp, confidando in una civile catena di controllo su strategia e gestione (ministro del Tesoro e Fondazioni, presidente, consiglio d’amministrazione, amministratore delegato)? La Cdp o i suoi fondi-satellite (dalle infrastrutture al social housing) potevano essere essi stessi quotati in Borsa oppure essere aperti a nuovi partner privati: e ora che il premier straccia personalmente gli accordi con i suoi co-azionisti? Banca d’Italia e Bce – severissimi con le banche italiane, con le Popolari-clan, con le Fondazioni-partito – non hanno nulla da dire sulla “sana e prudente gestione” della Cdp?
Nel 1990 – il governo Craxi-Andreotti, ormai allo zenith del proprio “regime” – forzò la mano sulle Bin dell’Iri, roccaforti della finanza laica milanese raccolta attorno a Mediobanca. Le assemblee della Comit e del Credit furono più volte rinviate dall’Iri, azionista di maggioranza: alla fine il governo (Giuliano Amato al Tesoro, Franco Nobili all’Iri) ebbe la testa di un paio di storici banchieri (Enrico Braggiotti in Piazza della Scala e Lucio Rondelli in Piazza Cordusio) inserendo nelle stanze dei bottoni figure più in sintonia.
Nessuno ricorda, tuttavia, un comico “comunicato del Presidente del Consiglio”, in salsa sudamericana: il premier era allora Giulio Andreotti Sesto, il suo partner Bettino Craxi era l’ex premier di Sigonella e di operazioni politico-finanziarie vieppiù spregiudicate come il “decreto Fininvest”: non sarebbero mai ricorsi a balconi o proclami, non ne avevano bisogno. (Di allora si rammentano invece vibratissime proteste da parte di un vasto fronte di opinionisti “democratici”, quelli sempre con la valigia in mano per Cambridge o Harvard: dove sono finiti?)
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Non più tardi di tre anni dopo, il Credit fu la prima banca dell’Iri a essere privatizzata. Il giorno di Sant’Ambrogio del ’93, due persone annunciarono i dettagli dell’Opv: il presidente dell’Iri, Romano Prodi, e Claudio Costamagna, giovane managing partner della Goldman Sachs in Italia, global coordinator del collocamento. Un anno prima era stata la banca d’affari americana a organizzare il “party” sul Britannia, per conto dell’allora direttore generale del Tesoro, Mario Draghi: a tavola furono imbandite tutte le successive vendite dei gioielli di Stato (Credit, Comit, Imi, Bnl, Ina, Telecom, Autostrade, Ina, Eni, Enel). Nel 2010 un rapporto della Corte dei Conti giudicò con molta severità quella stagione, lamentando sistematiche sottovalutazioni dei beni pubblici messi in vendita. Erano pressocché tutte quote di maggioranza: la privatizzazione del Credit (69% in mano Iri) fu la prima ed esemplare di una lunga serie di Opv in cui la Repubblica italiana rinunciò a chiedere almeno ad alcuni acquirenti strategici un premio di maggioranza, rendendo invece scalabili molte delle sue aziende-Paese.
Questo del resto prevedeva il “manuale” Goldman Sachs, che negli anni successivi ha nominato (e compensato) questi “international advisor” per l’Italia: Prodi (premier e presidente della Commissione Ue), Mario Monti (capo dell’Antitrust Ue e premier), Gianni Letta (sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e candidato alla Presidenza della Repubblica). Mario Draghi è stato executive vicepresident della Goldman per l’Europa quando la banca negoziò con il governo greco i primi derivati letali (e allora il governatore greco era Lucas Papademos, vicepresidente Bce prima di Draghi). Massimo Tononi, successore di Costamagna alla guida di Goldman Italia, è stato sottosegretario al Tesoro durante il Prodi-2 , ultra-interventista (stop alla fusione Autostrade-Abertis e negoziati “personali” con il gruppo Pirelli e le grandi banche per il riassetto di Telecom).
Ora Renzi vuole rifare l’Iri con il risparmio postale degli italiani. E alla presidenza ci (ri)mette Costamagna.