Il governo – che in gennaio ha gettato le Popolari italiane allo sbaraglio obbligandole alla trasformazione in Spa – qualche giorno fa ci ha messo una pezza. Il decreto che consente la pulizia dei bilanci dalle sofferenze creditizie accumulate dalla maxi-recessione in quasi totale esenzione fiscale è pensato anzitutto per aiutare le Popolari a varare fusioni o aumenti di capitale. Senza conti trasparenti, liberati da zavorre finora non quantificate del tutto, non sarebbe possibile valutare concambi o fissare prezzi per le emissioni di nuove azioni. Ma le Popolari vorranno o potranno effettuare l’operazione-verità già in sede di assestamento delle semestrali o al più tardi nei consuntivi al 30 settembre?
Quello sui bad loans – finora – è un decreto soggetto a conversione. E l’estate 2015 inizia fra incertezze e tensioni non troppo diverse da quelle del luglio horribile di quattro anni fa. Se l’ennesima crisi greca non si risolverà (o peggio: avrà sviluppi negativi) non è escluso che lo spread italiano torni a salire, con tutte le spirali del caso che nel 2011 colpirono duramente anzitutto le banche. Ma c’è dell’altro a rendere grigio l’orizzonte delle Popolari reformande.
Una volta accettato – molto obtorto collo – il diktat di Renzi sul passaggio alla Spa e quindi alla scalabilità in Borsa, quasi tutte le grandi Popolari avevano preso a studiare la formazione di noccioli duri simili a quelli che – una ventina d’anni fa – avevano consentito di dare assetti stabili (e presidio italiano) ai grandi poli ex pubblici privatizzati. Attorno a quasi tutti i campanili del credito popolare si respirava un cauto ottimismo: soprattutto dalla tradizionale platea di famiglie imprenditrici – tutte in varia misura azioniste-socie delle“loro” Popolari – ci si attendeva una risposta in termini di investimento. Una risposta che invece pare essere stata molto al di sotto delle aspettative.
A qualche delusione di troppo sia sul versante del valore corrente delle azioni e della loro remunerazione si è aggiunto il malumore noto e diffuso sul fronte del credito. Di più ancora, in qualche Popolare – il caso eclatante è quello di Vicenza – è già accaduto che parte del capitale proprio sottoscritto sia in realtà a fronte di linee di credito: secondo alcune cronache finanziarie sarebbe questo uno dei rilievi più critici delle prime verifiche effettuate sotto l’ombrello della vigilanza unica europea. Del resto i rapporti spesso complicati fra Popolari, imprese debitrici, soci e amministratori, sono il cavallo di battaglia di chi ha sostenuto la riforma draconiana.
Sta di fatto che – ad esempio – il pressing di molti ambienti vicentini per una fusione “perfetta” fra le tre Popolari della regione (Banco di Verona, Vicenza e Veneto Banca) sembra più wishful thinking di una città molto preoccupata di una sua banca-città che una reale prospettiva. Per di più neppure al recentissimo congresso dell’Acri il vicedirettore generale della Banca d’Italia, Luigi Signorini, ha dato segnali di apertura per l’ingresso delle Fondazioni bancarie nei futuri noccioli della Popolari. Che al presente non ci sono proprio. E tutte le autorità monetarie nazionali farebbero bene a preoccuparsene un po’.