Il risiko bancario prossimo venturo prende le mosse in ordine sparso: ammesso che si muova. Scorrere la cronaca di ieri è istruttivo. Il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, al convegno Euromoney, ha spezzato ancora tutte le lance a favore della bad bank: un veicolo di asset management che acquistasse i prestiti in sofferenza dalle banche “contribuirebbe a far partire il mercato dei non performing loans, aumenterebbe la trasparenza degli asset e migliorerebbe le condizioni a cui si finanziano”. Però la Ue continua a non dare ricevuta operativa del progetto (al convegno milanese di ieri c’era anche il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, che pochi giorni fa si è incontrato a Roma sul tema con il commissario alla Concorrenza Ue Margrethe Vestager). Il nuovo meccanismo Ue di bail-in rende più strette ancora le maglie per interventi pubblici. E il passaggio dei bad loans di banche formalmente non in crisi a prezzi non di mercato (col possibile trasferimento in diretto di perdite allo Stato) resta “problematico” da costruire ha ammesso anche ieri il governatore.



Contro la bad bank, in ogni caso, si sono ultimamente levate anche voci all’interno della comunità finanziaria nazionale. Per l’economista Alessandro Penati (che è anche amministratore delegato di Polaris, asset manager di alcune Fondazioni bancarie) l’abbattibilità annuale di tutte le perdite varata dal governo è una misura già adeguata. Andare oltre – con una bad bank – rappresenterebbe effettivamente un “favore agli azionisti di alcune banche” (Penati cita ad esempio Banca Marche, Banca Etruria e Cassa Ferrara, commissariate e – sembra – destinate a una holding “di sistema” attraverso il Fondo di garanzia dei depositi). Ma senza pulizia credibile dei bilanci come sarà possibile favorire fusioni o richiamare capitali freschi per salvare e/o rilanciare gruppi in difficoltà?



Mps è stata la banca italiana che allo stress test di un anno fa ha attirato le maggiori preoccupazioni da parte della nuova vigilanza Bce. Ieri il Monte ha formalmente chiuso la lunga transizione di Alessandro Profumo: Massimo Tononi, ex banchiere internazionale ed ex sottosegretario al Tesoro nel Prodi-2, è salito alla presidenza. In occasione dell’assemblea Marcello Clarich, presidente della Fondazione Mps (non più azionista di maggioranza) ha ribadito l’opzione-aggregazione per una stabilizzazione del Monte. Ma l’amministratore delegato della banca, Fabrizio Viola, è parso gettare acqua sul fuoco: “Per fare un’aggregazione bisogna essere in due” e per ora non c’è nessun pretendente. Ammesso che a Siena guardino con favore all’arrivo di qualche candidato acquirente.



Già pochi giorni fa, fonti del Monte avevano riferito alla Reuters di ritenere improbabile una svolta prima del 2016 (evidentemente inoltrato). E all’autunno 2016 come orizzonte indicativo ha fatto riferimento anche il Banco Popolare: il maggior gruppo della categoria chiamata alla trasformazione in Spa entro 18 mesi dalla riforma varata la scorsa primavera. A Verona, dunque, hanno deciso di prendersi tutto il periodo concesso dalle legge. Non è necessariamente un segno di immobilismo. Piuttosto sono molte le opportunità (o sollecitazioni) attorno al Banco che, come le altre grandi Popolari, deve preparare un nocciolo duro di presidio.

C’è, anzitutto, la crisi della vicina Popolare di Vicenza, che ha messo in cantiere un impegnativo aumento di capitale risanatore (1,5 miliardi). Anche ieri il presidente Gianni Zonin, ha lanciato ai soci un appello alla calma e alla “resistenza”: “Non gettate la spugna, attendete la quotazione din Borsa, il valore del titolo può risalire”, ha scritto in una lettera aperta. Ma il percorso di uscita (il timing combinato fra ripatrimonializzazione, trasformazione in Spa e quotazione in Borsa) rimane ancora tutto da definire. E i tempi stringono: dall’1 gennaio di ogni dissesto bancario risponderanno azionisti e, soprattutto, grandi depositanti. Il discorso vale anche oper la trevigiana Veneto Banca: attorno alla quale però è visibile un maggior dinamismo con l’uscita allo scoperto di un comitato di soci forte dell’8% e ricco di nomi imprenditoriali. Un “nocciolo” potenziale per traghettare la Popolare di Montebelluna verso la Spa e un’aggregazione concordata.

Nel frattempo, l’altra Popolare “campionessa” (Ubi) affronta l’assemblea di passaggio alla Spa in tempi molto più stretti – le prossime settimane – e senza aver risolto dualismi aperti da tempo: fra componente bresciana, storicamente rappresentata da Giovanni Bazoli, e componente bergamasca, a sua volta frammentata fra gruppo storico (facente capo all’industriale Andrea Moltrasio, presidente del consiglio di sorveglianza di Ubi) e forze dissidenti che già nel corso delle ultime assemblee hanno mostrato i muscoli. Non è un caso che – attraverso le pagine del Corriere della Sera – il nucleo di famiglie e istituzioni bresciane abbia certificato la propria forza relativa: un principio di arrocco che sembra confermare quanto la stessa Ubi non sia pronta per giocare il risiko.

E la situazione non pare diversa neppure a Milano: dove la Bpm è forse la Popolare più in forma, più potenzialmente “aggregante”. Per di più Piazza Meda ha davanti a sé un menu informale: la fusione con Bper (già praticamente decisa nel 2007, fino alla resistenza finale dei dipendenti soci) e l’aggregazione complementare di Carige. Eppure anche in Bpm quello di ieri sera è stato il primo di una prevedibile serie di consigli interlocutori e transitori.