“La grande scommessa” – nei cinema da pochi giorni, concorrente onorevole di “Quo vado” – vale più di ogni corso di educazione finanziaria. Più di ogni affannoso mantra cui Governo, autorità di vigilanza, opinionisti assortiti si stanno aggrappando in Italia per contrastare il populismo anti-bancario seguito all’Etruria-gate e dintorni. Il film co-prodotto da Brad Pitt è un ottimo docu-movie travestito da commedia: racconta bene il “chi-cosa-dove-quando-come-perché” della Grande Crisi finanziaria, di cui sono tardo rivolo anche le quattro risoluzioni bancarie italiane del novembre 2015.
La pellicola narra ciò che è in fondo era noto anche prima del 2008. Alla fine degli anni ’70, negli Usa della deregulation reaganiana il business bancario viene rivoltato come un calzino: escono di scena contabili precisi e noiosi e salgono sulla ribalta finanzieri creativi. Smontano il vecchio banking di sportello (raccolta del risparmio e concessione diretta di credito) e cominciano a costruire piramidi di carta, sempre più alte e ardite, sempre più prefabbricate in serie, a tempo di record. L’operazione bancaria più tradizionale (il mutuo a lungo termine per l’acquisto della casa) viene avvicinata e saldata alla nuova “finanza di mercato”: quella che impacchetta tutto (mutui e annate di vino) in strumenti derivati da rivendere subito a tutti (piccoli risparmiatori, fondi pensione, ecc.). Una finanza di mercato che trasforma – “cartolarizza” – grandezze di economia reale come il risparmio, il credito e la casa in fiche e caselle della roulette (una parentesi didascalica del film è ambientata non a caso a Las Vegas).
Una finanza di mercato che – ogni moralismo a parte – produce mutazioni genetiche in tutte le parti del sistema: a cominciare da authority e agenzie di rating che dovrebbero sorvegliarlo. Una finanza che reinventa bagnini come venditori di mutui subprime e spogliarelliste come acquirenti-prestanome di case-bolla; spinge banche e gestori a giocare con i quattrini dei clienti saltellando senza remore di qua e di là di ogni muro posto dai conflitti d’interesse.
Prima dei titoli di coda della “grande scommessa” (moralmente persa da tutti) scorrono cifre reali, peraltro ormai archiviate dagli annali: le migliaia di miliardi di dollari volatilizzati nella ricchezza finanziaria degli americani, i milioni di posti di lavoro e di case perdute, eccetera. I cento minuti di film hanno come fondale fisso Wall Street, anche quando gli uffici sono quelli della Deutsche Bank. Al massimo viene citata una banca svizzera: ma come compratrice finale di credit default swap. Non ci sono dubbi su dove e come sia nato questo mess, questo “enorme casino”.
Eppure negli stessi giorni del gennaio 2016 , due commentatori come Luigi Guiso e Luigi Zingales hanno riproposto sul Sole-24 Ore una “narrazione” completamente diversa. Se Banca Etruria è andata in dissesto (o una Popolare di Vicenza è a rischio) è perché era una Popolare italiana. Se Banca Marche, CariFerrara, CariChieti e Tercas sono finite risolte è stato perché erano controllate da Fondazioni bancarie. Fallimenti tutti italiani, prodotti dalla culture economico-finanziaria italiane, anzi: dai modelli di imprenditoria finanziaria che hanno preteso di resistere all’omologazione con la finanza di mercato.
Raccomandazione conseguente: cancellare Fondazioni e Popolari (e anche le Bcc ha diligentemente aggiunto Federico Fubini sul Corriere della Sera). La grande e monotona scommessa degli agitprop ultraliberisti: quelli che, come Francesco Giavazzi, il giorno dopo il crac di Lehman Brothers affermavano che l’unico vero rischio prevedibile per l’economia europea era il ritorno della politica in banca. Il business bancario – anche se aveva prodotto “enormi casini” e molti ancora ne avrebbe provocati – doveva rimanere proprietà privata e deregolata del nuovo oligopolio “apolitico”. E se nuovi dissesti avessero scosso risparmiatori, imprese, interi sistemi-Paese, l’analisi sarebbe stata invariata: la mercatizzazione globalizzata della finanza è imperfetta, va completata con l’occupazione avanzata di tutte le aree e i segmenti.
Se una banca europea – ad esempio una sparkasse tedesca – è crollata sotto il peso dei derivati il problema è la sua governance pubblica: non l’intossicazione indotta dai titoli ad alto rendimento (falso) unita allo sradicamento del commercial banking in cui quella sparkasse era collaudata e competitiva. La colpa è di chi perde “la scommessa” del momento: così come – nel film – è colpa della strip-girl se non ha capito almeno la differenza fra tasso fisso e tasso variabile in un subprime. Voleva comprarsi una casa e improvvisamente qualcuno le ha detto “scegli, i soldi li mettiamo noi”? Poteva pensarci meglio.
Potevano pensarci meglio anche alcune casse di risparmio o alcune Popolari italiane prima di abbandonare la loro attività tradizionale: intermediare piccolo risparmio delle famiglie verso mutui alle famiglie o alle imprese familiari. Però avrebbero potuto e forse dovuto pensarci meglio – non solo in Italia – anche forze politiche, autorità monetarie e opinion maker assortiti prima di scaricare sulle Popolari – non meno che su alcune Fondazioni – un pressing culturale intriso di falso ideologico. Imporre l’orientamento al profitto finanziario a breve, la creazione di valore in Borsa, lo sconfinamento implicito e tendenziale nell’azzardo morale, obbligare in concreto le Popolari alla quotazione diretta al listino si è rivelata una “grande scommessa” alla rovescia. Nel caso dell’Etruria vi si sono ritrovati perdenti – in misura diversa e su sponde opposte – sia il padre del ministro Maria Elena Boschi, sia il risparmiatore suicida di Civitavecchia. Hanno perso sia la “piccola città” del Centro Italia, sia il “grande Paese” fondatore dell’Unione europea. Sia una Banca d’Italia in declino, sia il prestigioso banchiere italiano che dalla Goldman Sachs è giunto al vertice della Banca centrale europea.
Ne sta uscendo perdente – e non è la prima volta – anche la coscienza pubblica della “questione bancaria”, cioè un pezzo di politica tout court. L’inversione fra cause ed effetti, nelle analisi di questi giorni da parte degli analisti di sempre, può far parte del gioco delle parti. Sul sussidiario si è già notata la bizzarria di intellettuali ultraliberisti che propongono la creazione di un “ente” parapubblico che dovrebbe erogare educazione finanziaria e non meglio definite “patenti” per investire. Una proposta che fa il paio con l’ipotesi governativa di rimborsare con fondi pubblici “umanitari” alcune categorie di obbligazionisti subordinati delle banche risolte: caso per caso, sulla base dell’arbitrato di una para-magistratura. Anche alla fine – reale – della Grande Scommessa lo Stato americano paga i conti della finanza tossica al posto di coloro che hanno intossicato il risparmio, la casa, le banche degli americani.
Voler fare “educazione finanziaria” a buon mercato (elettorale) con i rimborsi a piè di lista è un primo errore del governo Renzi sulla “questione bancaria”. Il secondo sarebbe prestare protezione a qualche banchiere “amico” in disgrazia: così come negli Usa tutti i banchieri hanno evitato disgrazie. Il terzo – e più grave – sarebbe lasciare assaltare i forni delle Popolari e delle Fondazioni mentre è il re di Spagna di turno, molto lontano, ad aver affamato la città. Adelante e con juicio. Solo il suo.