Dalla caduta nel vuoto in Borsa alla mosconata-paracadute di Davide Serra; dagli spettri del Santander ai rumor di fusione “nucleare” a tre con Ubi e Bpm. La settimana del Montepaschi – forse davvero una delle ultime dopo 544 anni – è stata degna della storia a sé di questa antica banca europea: che sta tenendo fede fino in fondo al fosco titolo di “peggior banca dell’Unione bancaria” meritato già al primo stress test a fine 2014. E testardamente esibito anche nel 2016, nelle prime settimane dell’era dei bail in.
Passi per il finanziere preferito dal premier Matteo Renzi. “Io compro”, ha dichiarato alle agenzie giovedì pomeriggio quando il Monte sembrava dover azzerare ogni valore al listino. “Ho fatto un servizio al Paese”, ha dichiarato ieri a Lucia Annunziata, che l’ha prontamente invitato su Rai3. In mezzo c’è stato uno spettacolare rialzo overnight dell’azione Mps: da -30% a +43%. Altro fieno in cascina per la finanza “renziana” dopo quello accumulato giusto un anno fa, quando alcuni in Borsa anticiparono la riforma delle Popolari Spa, che beneficiarono di improvvisi rialzi (compreso quello dell’Etruria, commissariata pochi giorni dopo e ora “risolta”). Ma il finale della saga di Arezzo – in fondo più grottesco che disastroso – non può aver nulla a che vedere la sceneggiatura-monstre che si va dipanando a Siena.
Chi e con che finalità può aver richiamato in causa il Santander come possibile “cavaliere bianco” di Mps? Il colosso iberico è stato, meno di dieci anni fa, il “cavaliere nero” che ha affondato mortalmente Rocca Salimbeni: vendendo AntonVeneta a un prezzo astronomico e controverso. Un prezzo che Siena non si poteva permettere e invece ha accettato, con il via libera senza riserve della Banca d’Italia di Mario Draghi. E per giustificare l’effetto-asta (AntonVeneta fu comprata senza due diligence) in quei giorni dell’autunno 2007 fu fatto balenare l’interesse di Bnp Paribas, che due anni in Italia prima aveva rilevato Bnl. Chissà se il gruppo francese si mise davvero in gara contro Mps per AntonVeneta: invece è vero che è stato citato proprio nei giorni scorsi come alternativa a Santander per salvare il Monte. Può darsi sia una suggestione, ma è come se “il mercato” abbia voluto richiamare chi ha provocato – o non ha evitato – quel guaio gigantesco a sistemare una volta per tutte quella partita.
È a questo punto che sui media ha preso a circolare l’ipotesi di fusione a tre fra Mps, Ubi e Bpm: quasi fantafinanziaria fino a pochi giorni fa. Ma l’ipotesi è divenuta improvvisamente realistica giovedì, quando Draghi – nei panni di presidente della Bce – ha imbracciato il suo bazooka per una volta in difesa delle banche italiane, oltreché del suo profilo di banchiere centrale. Ha dato virtualmente sulla voce alla sua sottoposta Danièle Nouy – il capo francese della supervisione bancaria della Bce – perorando la causa dellabad bank italiana; bacchettando la comunicazione della vigilanza di Francoforte sulle ricognizioni sulle sofferenze e infine stroncando ogni ipotesi di ulteriore appesantimento sui requisiti patrimoniali. Con toni duri – analoghi a quelli con cui ha prospettato nuove fasi di politica monetaria espansiva – ha nei fatti avocato sé il dossier bancario italiano, diffidando altri da interferire (altri intuibilmente interessati a mettere in dubbio l’autorevolezza e l’indipendenza di Draghi come vigilante in Bankitalia).
Ora comunque è chiaro che per Mps la soluzione non può essere che “finale”: non per nulla a Siena ha ridato segni discreti di attività il presidente Massimo Tononi, ex capo della Goldman Sachs in Italia quando Draghi ne era uno dei top manager a Londra. “Guardiamo sia all’Italia che all’estero”, ha detto Tononi, ma è improbabile che sull’hot spot di Siena venga fatto affacciare qualche gruppo non italiano. Del resto anche nel 2007 ciò che spinse Bankitalia a dare subito l’ok a Mps-AntonVeneta fu anche il discreto orientamento a far rientrare in Italia una banca finita due anni prima all’olandese Abn Amro in modo un po’ troppo cruento: per di più ritrovandosi velocemente nel calderone del dissesto Abn. E se “soluzione italiana” dev’essere, Ubi è da sempre la prima candidata: che finora ha potuto resistere opponendo la propria poca forza dimensionale per un salvataggio così problematico. Ecco perché ci vuole un’altra banca, anzi un’altra Popolare del Nord, in relativa salute: e poco importa se la Milano sembra giunta a un passo dal progetto di fusione alla pari con il Banco Popolare.
Il “progetto Draghi” sembra delineato e non privo di logica industriale. E se per la Borsa si vedrà (ma ci sarà sempre un Serra pronto a dire buy), fra Milano e Roma sta andando rapidamente a fuoco anche la logica politica dell’ipotesi. Primo: Draghi & Renzi uscirebbero con un colpo di reni dalle sabbie mobili nelle quali sono finiti entrambi, in modi e misure diverse, dopo le risoluzioni bancarie di novembre. Ne uscirebbero rafforzati sul fronte italiano e su quello europeo. Secondo: sul caso Mps – da anni vera “sofferenza bancaria” dell’Azienda-Italia – verrebbe messa una pietra sopra. Le fusioni sono tombe di carte e di inchieste. Il “vecchio Monte” dominato da Pci-Pds-Ds-Pd cesserebbe di essere uno scandalo al sole. Poi potrebbe anche darsi che – sotto il cappello di una nuova holding federale – Mps rinascesse come Spa controllata e mantenesse ancora per un po’ un minimo di welfare senese.
In terzo luogo verrebbero “superate” altre due banche ben connotate. Due Popolari: di quelle che il governo ha riformato con un decreto blitz, salvo poi lasciare che si prendessero tutto il tempo per passare ai fatti. La Bpm è una vecchia conoscenza della Vigilanza Bankitalia: che si è puntualmente scornata contro il fortino dei dipendenti-soci di Piazza Meda, periodicamente additata dai mercati come “modello negativo” nel sistema bancario italiano. Ubi ha invece sempre offerto il profilo più tranquillo del capitalismo familiare di Bergamo e Brescia: ma in quanto tale funge già da tempo da buen retiro per Giovanni Bazoli. Il banchiere italiano più longevo e prestigioso sta per abbandonare dopo 34 anni il ponte di comando di Intesa Sanpaolo. Se Ubi venisse ingoiata dalla Nuova Banca di Draghi & Renzi, il Professore avrebbe meno punti d’appoggio per continuare a recitare un ruolo. E se infine la Cdp facesse capolino nel nuovo azionariato, Palazzo Chigi in particolare si ritroverebbe ad “avere una banca”: una “banca di sistema” secondo l’espressione coniata proprio da Bazoli. Si vedrà. Ma abbastanza in fretta.