Quando Repubblica apre la prima pagina con l’avvertimento-sfiducia dell’Economist a Renzi, quando il ministro dell’Economia Padoan è obbligato ad esprimere in tv il suo “totale disaccordo” sulla ricetta del governo tecnico suggerita dal settimanale britannico, il primo impulso porta alla domanda di sempre: perché un Paese come l’Italia deve pendere dalle labbra di un gruppo di giornalisti di un altro Paese?
L’Economist, per quanto autorevole, è il giornale che sei mesi fa, in casa propria, ha sbagliato previsioni ed endorsement su Brexit. E a Londra, per gestire una crisi seria, non hanno certo sospeso la democrazia, la Regina non si è sognata di nominare premier tecnico un economista di Oxford, magari collaboratore dell’Economist. David Cameron si è dimesso (non obbligato da nessuno, tanto meno da Le Monde o dalla Frankfurter Allgemeine). I Tory hanno dato vita – in un momento difficile per la Gran Bretagna e l’Europa – a una rissa interna indecorosamente peggiore di tutti i toni della campagna referendaria italiana o di quella di Donald Trump, così negletta dalle penne dell’Economist. Sei mesi dopo il voto, il governo May non ha una road map per realizzare l’indicazione del voto popolare. A Londra le banche cominciano a traslocare: la City stessa non è più troppo sicura di se stessa, proprio quando la vittoria di Trump sembra rilanciare Wall Street. Perché essere così certi che l’Economist veda bene e giusto nel votare e far votare No alle riforme italiane e nel prospettare un nuovo governo tecnico?
Come più volte avvenuto in passato (ad esempio, sotto la direzione di Bill Emmott, di casa a Milano e Roma) è probabile che l’Economist abbia dato voce a spirits profondi, di una certa Londra, di alcuni circoli cosmopoliti che hanno ovviamente importanti appartenenze in Italia. E sembra peraltro questo (non tanto “il punto di vista dei mercati”) ad allarmare Renzi e i suoi supporter. L’Economist è il giudice globale che decretò la fatwa globalista e politicamente corretta contro Silvio Berlusconi, prima ancora che Angela Merkel e Nicolas Sarkozy deridessero il premier italiano. Ma il Cavaliere – ultraottantenne, politicamente minoritario e forse superato – cinque anni dopo il 2011 è tornato in tv e per indicare una road map “se vince il No”, ma in fondo anche “se vince il Sì”, anzi: indifferentemente se il Sì vince di poco o perde di poco (ipotesi entrambe accreditate). Domani è probabile che il Cavaliere ripeta la sua ricetta a Canale 5, nel contenitore domenicale: ma non è banale che da Barbara D’Urso sia annunciato anche Renzi.
Difficilmente gli italiani avrebbero visto il premier e l’ex premier ospiti dello stesso format la domenica prima del voto se gli americani non avessero eletto presidente un clone di Berlusconi: un imprenditore poco cosmopolita, euro-scettico e e in buoni rapporti con Vladimir Putin. Un Trump che ha sconfitto Hillary Clinton, il segretario di Stato che volle la fine della Libia di Gheddafi nella stessa estate del 2011 (guarda caso Berlusconi ne ha parlato a lungo a Matrix, ricollegando a quegli “errori” l’emergenza migranti).
L’Economist – e i suoi amici e collaboratori italiani – temono questo: che l’exit strategy da una possibile vittoria del No, a differenza di quella britannica, sia già in discussione e abbia chance di concretizzarsi (al netto delle schermaglie già in corso fra i due campi). L’istituzionalizzazione del Nazareno si profila come una sorta di “grande coalizione” italiana: diversa, peraltro da quella che sostenne il governo Monti e in parte proseguì con Enrico Letta dopo la “non vittoria” del Pd nel 2013. Potrebbe perfino trasformare una “vittoria del No” (al momento in testa nei sondaggi) in una “non sconfitta del Sì”, anche se l’incognita maggiore è rappresentata proprio da Renzi: accetterebbe di far evolvere il suo ruolo come – presumibilmente – gli chiederebbe il presidente della Repubblica?
Un rinvio alle Camere, forse un rimpasto: nei fatti quello che Angela Merkel punta a fare dopo le elezioni 2017 in Germania (un referendum sul Cancelliere). O quello che – presumibilmente – si ritroveranno a fare François Fillon oppure Alain Juppé all’Eliseo: moderati alla guida della Francia “non lepenista”. È chiaro perché all’Economist non può piacere quest’Europa continentale alla ricerca di faticose formule di stabilità di governo: mentre l’America di Trump rivede i parametri della propria centralità globale e Londra vede aumentare ogni giorno il conto di Brexit.
Stavolta, spiace per l’Economist, l’isolamento britannico è tutt’altro che splendido.