Le diimissioni annunciate del presidente Alessandro Azzi all’assemblea Federcasse riaccendono i fari su una crisi in parte dimenticata: quella del Credito cooperativo. Una crisi innescata in parte non piccola dalla riforma stessa avviata dal Governo all’inizio del 2015. Allora una parte delle oltre 400 Bcc italiane presentava già problematiche comuni ma non più gravi rispetto all’intero sistema bancario italiano. La sollecitazione all’autoriforma – preferita alla fine al decreto che ha invece obbligato le Popolari alla trasformazione in Spa – mirava esplicitamente all’ammodernamento della governance delle piccole banche di territorio, funzionale alla nascita di un raggruppamento nazionale più compatto, sull’esempio di altre esperienze in Europa e in Canada.

Il progetto completato alla fine dell’estate 2015 da Tesoro e Bankitalia aveva raccolto l’unanimità dei consensi fra le coomponenti regionali di Federcasse, attorno alla continuità della tradizione unitaria del movimento della cooperazione creditizia. Il rinnovo di un mandato pieno ad Azzi, un anno fa, aveva rappresentato tale unitarietà, nel mentre il governo valutava il progetto per varare la riforma. La versione finale di quest’ultima – finalmente licenziata da Palazzo Chigi nel febbraio scorso – ha all’ultimo dato spazio alle istanze a un piccolo gruppo di Bcc toscane, storicamente periferiche rispetto alla Federazione nazionale.

La possibilità per una Bcc di trasformarsi in Spa è stata ovviamente prevista in via generale: ma proprio in questo fine settimana ad attraversare il Rubicone lasciando la cooperazione è stata la Bcc del Chianti. Quest’ultima è presieduita da Lorenzo Bini Smaghi, fra l’altro presidente del consiglio di sorveglianza della francese Société Générale, vicinissimo al premier Matteo Renzi. Lo stesso Bini Smaghi è stato fra i primi a promuovere la nascita di un gruppo alternativo alle storiche strutture bancarie nazionali delle Bcc, attorno a Iccrea Holding. L’ipotesi ha fatto alla fine breccia presso la comunità trentina delle Bcc, storicamente leader in Italia.

Dopo un estremo tentativo maturato all’inizio del 2016 con un memorandum d’intenti fra Federcasse e Cassa Centrale di Trento, la frattura si è riaperta: mentre nel frattempo la Banca d’Italia ha amenato la normativa secondaria della riforma, con la previsione possibile di più di un gruppo di Bcc nel Paese. Di qui la decisione di Azzi di rimettere il mandato agli associati. Non prima di aver ribadito la fiducia nella strategia unitaria condotta fin dal 1991, e in particolare negli ultimi 18 mesi. “La riforma è buona anche se si sarebbe potuto far di più”, ha detto l’avvocato bresciano che presiede Federcasse. In ogni caso: nessun dubbio sull’assoluta preferibilità del gruppo unico, senza spazi a frammentazioni, “campagne acquisti”, emarginazione delle Bcc più deboli (con l’aggravamento di singoli crisi e tradimento del principio di mutualità), ingressi surrettizi di interessi esteri.

“La soluzione unica – ha detto alla vigilia dell’assemblea – sarebbe utile per cogliere opportunità ed evitare rischi. La divisione comporta infatti la duplicazione dei costi di direzione, coordinamento e controllo della Capogruppo sulle Bcc. Non solo. la replica dei processi decisionali sottrarrebbe risorse che le Bcc potrebbero invece destinare all’innovazione. La soluzione unica avrebbe in definitiva il pregio di favorire economie di scale, la messa a fattor comune delle migliori risorse patrimoniali e professionali, più forti capacità di investimento e maggiore reputazione sui mercati”. Le dimissioni di Azzi – non accolte dal Consiglio nazionale Federcasse – non chiudono una fase ma la aprono. Su invito del presidente di Confcooperative, Maurizio Gardini, l’assemblea sarà tenuta aperta fino al 20 dicembre. Ancora una partita bancaria – un riassetto-Paese, non il meno importante – che promette di risolversi solo dopo il referendum istituzionale.