Bisogna dare atto alla Popolare di Sondrio – al suo presidente Francesco Venosta e ai suoi 185mila soci – di aver gestito con senso di responsabilità l’inedito passaggio posto dalla pronuncia del Consiglio di Stato che ha in parte congelato la riforma delle Popolari. A differenza di quanto è avvenuto a Bari (dove la situazione della Popolare è diversa e più complessa sul piano patrimoniale e gestionale), l’assemblea della Sondrio per la prevista trasformazione in Spa si è tenuta, anche se il Tribunale di Milano ha ritenuto opportuno privare la convocazione della parte straordinaria che ne costituiva il clou. E il cda della Sondrio è stato chiaro nel confermare il proprio orientamento a modificare la fisionomia societaria del proprio gruppo, come richiesto dalla riforma e come già fatto praticamente da tutte le consorelle.
“Siamo pronti a una nuova assemblea”, ha detto Venosta ai 3mila presenti, guardando ai tempi stretti degli sviluppi attesi: la pronuncia d merito del Consiglio di Stato (anzitutto sul nodo del diritto di recesso pieno per tutti i soci non favorevoli alla Spa) e soprattutto il parere della Corte costituzionale sulla legittimità dell’intera riforma. La Sondrio ha anche prospettato una via cui la Popolare guarderebbe già per non restare “cigno nero” di una riforma a quel punto incompiuta per l’intero sistema bancario. La Popolare scorporerebbe la banca in una Spa, mantenendo al momento la cooperativa in ruolo di holding. Una situazione che sarebbe priva di significatività per l’evoluzione del riassetto bancario in corso: fra le Popolari e oltre.
Lo scorporo di una Popolare in una Spa controllata al 100% dalla “vecchia” cooperativa non è un modello nuovo o sconosciuto in Italia, anzi: la riforma del 2015, non a caso, l’ha esplicitamente esclusa come sostanzialmente elusiva degli obiettivi politico-creditizi (il superamento della governance legata a “una testa/un voto” e il pressing verso fusioni/acquisizioni attraverso la contendibilità in Borsa delle nuove Popolari Spa). La holding-coop è già stata protagonista in Italia di passaggi di successo (la concentrazione fra Verona, Novara e Lodi nel Banco Popolare, appena fuso con Bpm in una nuova Spa) e di casi molto meno fortunati (il dissesto della Popolare di Spoleto, costato un avviso di garanzia al governatore della Banca d’Italio Ignazo Visco). E non va certo dimenticato che lo scorporo è stato lo schema di base con cui, un quarto di secolo fa, sono state ristrutturate Casse di risparmio e banche pubbliche: all’inizio di un processo di privatizzazione e concentrazione del sistema i cui risultati di lungo periodo sono unanimemente considerati positivi.
Holding-coop come le Fondazioni (naturalmente quelle che sono hanno interpretato in modo corretto ed efficace il loro ruolo): la Popolare di Sondrio dice di voler ripartire da qui e non è affatto improbabile che le revisioni in corso del testo della riforma considerino praticabile l’opzione: a questo punto solo per la Sondrio? Non sarebbe di per sé fatto marginale per un istituto solido, che per questo era rimasto finora cauto ad aprire qualsiasi partita nel risiko: dalla fusione alla pari con il competitor di casa Credito valtellinese, a partite più larghe (resta finora single la Bper) fino a possibili interrventi di sistema nella stabilizzazione delle due Popolari del Nordest salvate da Atlante. Una Sondrio più tutelata dallo schema-scorporo avrebbe maggior libertà di manovra.
Un secondo tema è simmetrico e riguarda invece le Popolari che si sono già trasformate in Spa o addirittura già fuse (e per le quali pare da escludere ogni possibilità di “riavvolgere il film” alla situazione pre-riforma). La trasformazione in Spa della Bpm – e la fusione con il Banco Popolare – hanno dovuto vincere resistenze estreme da parte dei circoli dei dipendenti-soci e dei pensionati-soci, tradizionali protagonisti della governance in Piazza Meda. Detentori quest’ultimi, di quote marginali ma non infinitesime in via aggregata: tanto che l’ipotesi di mantenere unitaria la presenza azionaria (in una Fondazione o in una holding) è stata più volte ventilata attorno a Bpm. Se le pronunce costituzionali ridessero rilievo e legittimità a questa formule non è da escludere (almeno in via teorica) che vengano rimesse allo studio. Né è da escludere che in Popolari nell quali la proprietà rimane largamente diffusa fra piccoli azionisti individuali, una holding coop possa essere ricreata a monte: magari non per dare compattezza al 100% o a una quota di maggioranza assoluta, ma per far riemergere una quota di minoranza qualificata, di “presidio cooperativo”.
Non può essere naturalmente trascurato che l’eventuale messa allo studio di holding-coop o Fondazioni di ex piccoli soci avverrebbe ancora sullo sfondo della recente inchiesta della Procura di Bergamo su Ubi (la prima grande Popolare a trasformarsi in Spa già un anno fa). Le indagini hanno messo nel mirino il funzionamento della governance cooperativa in una grande banca e hanno spinto gli inquirenti a individuare irregolarità societarie in un modello oggettivamente misto (grande banca quotata gestita come cooperativa). Gli stessi dissesti di Banca Etruria, Popolare di Vicenza e Veneto Banca sono parsi in qualche modo suggerire l’opportunità politica e di vigilanza di cancellare il modello cooperativo nel credito, omologandolo a quello della Spa quotata. Ma non manca – da tempo – chi attribuisce i dissesti proprio a vent’anni di forzatura della finanza di mercato su un modello di intermediazione di risparmio e credito diametralmente opposto. Ecco perché la correzione della riforma può davvero aprire una fase “2.0”: non solo per le Popolari: a cominciare dalle “cugine” Bcc, esse pure ancora in mezzo al guado di una riforma “renziana”.