Alle 19 il Veneto trainava già l’affluenza-boom al referendum con il 65% degli aventi diritto. Non sappiamo se il premier Matteo Renzi ne sia stato colpito o forse addirittura confermato sulla piega che stava prendendo la serata elettorale. Di certo dietro e dentro il voto di una regione governata dalla Lega c’erano i 200mila soci della Popolare di Vicenza e di Veneto Banca: i loro familiari, i loro amici, loro soci, i loro dipendenti. Miliardi bruciati, risparmi di più di una vita, credito asciugato e tutto il resto. Ma negli ultimi dodici mesi è successo anche ad Arezzo, a Cesena, a Chieti, nelle Marche. A Genova. Soprattutto a Siena: dove la crisi più pesante è giunta a un drammatico redde rationem. La crisi bancaria – fatta di finanza tangibile e di sfiducia intangibile – ha abbondantemente colpito l’ottimismo renzista della volontà  anche in comuni semisconosciuti: dove decine di banche di credito cooperativo hanno bruciato altri patrimoni, altri risparmi, altri crediti, altri posti di lavoro dentro e attorno agli sportelli.



Il Financial Times aveva agitato lo spettro di “otto banche italiane sul punto di fallire” se avesse vinto il No: invece sono state le banche italiane già abbondantemente dissestate ad alimentare la disfatta schiacciante del Sì. Uno dei tanti capitoli di un passaggio elettorale e politico-istituzionale il cui esito appare meno scioccante se si guardano alle radici economico-finanziarie: che non sono solo i decimali di Pil che non hanno riempito le tasche degli elettori e hanno invece logorato i rapporti dell’Italia con la Ue, la Bce, i mercati.



Se Il Sì avesse vinto, anche di misura, Renzi avrebbe comunque dovuto affrontare una confronto economico risolutivo con le autorità comunitarie: sulla legge di stabilità 2017 e – quasi sicuramente – su un “collegato bancario” (un compromesso sulla stabilizzazione di Mps e degli altri punti deboli del sistema: i termini di un possibile intervento pubblico in deroga alle regole del “bail in” erano stati delineati da Lucrezia Reichlin sul Corriere della Sera tre giorni fa). Ma a Bruxelles il premier sarebbe volato inevitabilmente indebolito, reso ancor meno credibile dalla raffica di promesse effettuate nella contaminazione totale fra la campagna referendaria sulle riforme o quella sulla persona di Renzi. Quelle promesse sono parse assegni a vuoto distribuiti all’ultimo per far dimenticare una pressione fiscale che – in mille giorni di governo – non sono mai diminuite al pari della spesa pubblica. E soprattutto del debito pubblico.



Ha colpito, alla vigilia del voto, leggere sui due principali quotidiani nazionali – complementari nell’espressione dell’elettorato “costituzionale” progressista o moderato – due editoriali-fotocopia. Entrambi i direttori hanno lamentato che l’elaborazione della riforma e la sua conduzione politico-elettorale hanno prodotto danni al paese: anzitutto mesi di non-governo in un momento critico soprattutto per l’Azienda-Italia. 

L’affermazione del No è stata trasversale fra le regioni ma – c’è da crederlo – anche fra i segmenti dell’economia-Paese: fra le comunità imprenditoriali del Nord e le organizzazioni sindacali, fra i dipendenti pubblici e quelli privati, fra le partite Iva e i giovani disoccupati (anche loro fanno parte del sistema). 

Stamattina è probabile che i mercati reagiscano subito con nervosismo al risultato e soprattutto alla crisi di governo. Eppure, può sembrare un paradosso, il referendum ha chiarito, non confuso il quadro politico-economico. E non è affatto detto che in Italia, ieri, abbia vinto il populismo anti-europeo. Toccherà, forse, al ministro dell’Economia Piercarlo Padoan, dimostrarlo.