Si farà la fusione Banco Popolare-Bpm? Cosa sta davvero accadendo attorno a un’operazione certamente importante, ma probabilmente meno rilevante del riassetto francese in accelerazione in Telecom? L’assemblea del Banco Popolare, ieri a Lodi, si è svolta sotto i potenti riflettori accesi nelle 48 ore precedenti da due eventi. Il primo è stato la diffusione di una lettera inviata dalla vigilanza Bce alle due banche, da mesi in colloqui di fusione, fra loro e con l’Eurotower.
La lettera è stata con tutta evidenza concepita dalla supervisione-euro guidata dalla francese Danièle Nouy per evitare che l’assemblea del Banco si risolvesse addossando sulla Bce ogni attesa, ogni decisione di merito e quindi ogni responsabilità sul successo o sul fallimento del progetto di fusione. Il testo si è presentato formalmente come un memorandum riguardo i desiderata della vigilanza europea su ogni fusione fra grandi banche: adeguato livelli patrimoniali, governance trasparente, management efficiente all’interno di una reale integrazione organizzativa.
Nei fatti Francoforte (che ieri si è premurata di inviare a Lodi una sua funzionaria lettone in veste di osservatrice) ha confermato che le ipotesi finora presentate da BP e Bpm non hanno soddisfatto i requisiti richiesti. Non la struttura del bilancio (in cui – a quanto è noto – il carico di sofferenze del Banco richiederebbe un progetto di smaltimento più veloce e incisivo di quello ipotizzato e forse un aumento di capitale a carico del Banco). Non la governance a tre livelli (consiglio d’amministrazione presieduto da Carlo Fratta Pasini, attuale numero 1 del Banco; comitato esecutivo guidato dall’attuale Ad del Banco, Pierfrancesco Saviotti; amministratore delegato Giuseppe Castagna, oggi in Bpm). Soprattutto, la Bce è chiaramente contraria all’ipotesi che la Bpm mantenga per alcuni anni una “licenza bancaria” distinta da quella della futura capogruppo. In ogni caso l’Eurotower ha chiesto alle due banche una parola chiara entro martedì 22 marzo e al massimo un mese di tempo per presentare un progetto finale: compliant con i requisiti dell’Unione bancaria.
Giovedì, quando si è avuta notizia della lettera, il caso Banco-Bpm ha registrato due forti momenti di cronaca, In mattinata, in un’intervista al Sole 24 Ore, il finanziere Davide Serra è sceso in campo da Londra a favore della fusione, parlando a generico nome “degli investitori”. Serra, notoriamente legato al premier Matteo Renzi, era stato “attenzionato” da Consob e Procura di Milano all’inizio del 2015, quando i tempi e i modi della riforma delle Popolari varata dal governo Renzi, produssero forti e anomali rialzi dei titoli in Borsa. Lo stesso Serra, poche settimane fa, aveva dichiarato a mercati aperti di essere “compratore” di bond subordinati di Mps durante una seduta particolarmente critica per il gruppo senese.
Giovedì scorso, dopo le prime indiscrezioni sulla lettera Bce, la giornata di Borsa si è fatta molto critica per il Banco Popolare, che è giunto a perdere oltre il 14% al listino – secondo momento forte di newsflow sul caso – tanto che la Consob ha deciso per la seduta di venerdì il divieto di vendite speculative allo scoperto.
Dopo la pronuncia della vigilanza (il piano di fusione al momento non è autorizzabile) e quella del mercato (il punto di debolezza è il Banco Popolare), venerdì è stata la volta del governo. Con una presa di posizione che ad alcuni osservatori è parsa “irrituale”, il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ha espresso “apprezzamento” per il piano di fusione fra Popolari, confidando che esso si realizzi nell’ambito delle prescrizioni Bce. Lo statementintendeva fermarsi probabilmente all’auspicio ed è stato – forse inevitabilmente – tirato per la giacca dai media in direzione dell’endorsement. Certamente – a dispetto del fatto che Banco e Bpm sono due società private e quotate in Borsa – il governo ha appofittato per rinfocolare la polemica con il presunto rigore asimmetrico delle autorità europee contro l’Italia: polemica esplosa tre mesi fa proprio in occasione delle “risoluzioni bancarie” di Banca Etruria e di altre tre banche.
L’assist – un po’ stregonesco – del governo ha in ogni caso cosentito al Banco e al presidente Carlo Fratta Pasini di scavallare un appuntamento assembleare che si presentava improvvisamente problematico. Ha consentito al Ceo Saviotti di incassare un sì plebiscitario al bilancio 2015 e di confermare la volontà di “far fiorire” la fusione, con il plauso del sindaco di Verona Flavio Tosi (ex leghista, in avvicinamento al “partito della nazione” di Renzi) e del vicesegretario del Pd, Lorenzo Guerini, presente all’assemblea. Saviotti ha dovuto tuttavia pagare un prezzo non trascurabile: rimuovere la pregiudiziale a una possibile ricapitalizzazione, tassativamente esclusa ancora pochi giorni fa.
Il “gioco del cerino” è ora destinato a concludersi in Piazza Meda a Milano. Nel quartere generale della Bpm i consigli della governance duale si riuniranno entro martedì. Non è un mistero per nessuno che la Bpm è ormai fredda sulle trattative condotte dal Ceo Castagna, fra i molti dubbi della Borsa. Nei giorni scorsi hanno preso a circolare voci circostanziate sulla disponibiltà a re-investire da parte dell’ex presidente Andrea Bonomi, per ricreare un “nocciolo duro” nella nuova Bpm Spa e sviluppare una strategia autonoma. E in assenza del pressing plateale del governo, è quasi certo che la Milano avrebbe avuto buon gioco nel chiudere il dossier.
Ora è invece prevedibile che Piazza Meda si ritrovi a dover “comprar tempo” tenendo aperto il tavolo: e lasciando che – presumibilmente – i mercati accentuino la loro contrarietà al progetto, magari sulla scorta del primo cedimento del Banco sul fronte della ricapitalizzazione. Su questo versante non va fra l’altro trascurato che il Banco ha ventilato ieri un suo possibile aumento in parallelo a quelli già sui blocchi di partenza per le altre due Popolari del Nordest: Vicenza (1,7 miliardi) e Veneto (1 miliardo). È vero, d’altronde, che è stato grazie ai colloqui di fusione con il Banco che la Bpm è sfuggita finora alla “convocazione” del governo per il salvataggio di Mps. Mentre un no al Banco – per quanto in parte fondato su ragioni di mercato – potrebbe riallungare sulla Milano le vecchie ombre sul ruolo dei dipendenti soci nella governance.