Non era chiaro, ieri sera, quale fosse la notizia più preoccupante per l’Italia, all’inizio di una settimana di fuoco per la politica economica europea, che avrà il suo culmine giovedì con la riunione del consiglio Bce.È risultata certamente problematica la conclusione bifronte dell’Eurogruppo sull’Italia: che ha riconosciuto «che il rapporto debito/Pil si è stabilizzato nel 2015 e comincia a scendere nel 2016», ma ha tuttavia segnalato che «l’alto debito resta motivo di preoccupazione». E in base alle previsioni d’inverno «l’Italia non rispetterà la regola del debito nel 2015 e 2016». «In questo contesto – si legge nelle conclusioni del summit dei ministri finanziari dell’Eurozona – attendiamo in primavera la nuova valutazione» della Commissione e «accogliamo con favore l’impegno dell’Italia ad attuare le misure necessarie per assicurare che il bilancio 2016 sia in linea con le regole».
Non ha certo contribuito a rasserenare il cielo dell’Azienda-Italia il taglio delle stime 2016 della crescita del Pil italiano all’1% da parte di Fitch (contro l’1,6% attualmente previsto dal governo di Roma). Ma potenzialmente molto insidioso è apparso anche quanto ha detto ieri il presidente dell’Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem, ai ministri finanziari dell’eurozona (fra i quali l’italiano Pier Carlo Padoan) a proposito del dossier-Grecia. Dijsselbloem ha chiesto ai colleghi di prepararsi a far ripartire in aprile i colloqui sul tema dell’alleggerimento del debito greco.
Questi colloqui possono riprendere solo nel momento in cui i creditori di Atene, ovvero i paesi della zona euro e il Fmi, abbiano constatato che il governo greco ha compiuto le riforme previste dall’accordo della scorsa estate. Il processo di valutazione di tali riforme è giunto a uno stallo in febbraio attorno a dettagli della riforma pensionistica e a causa delle divergenze esistenti tra zona euro e Fmi sulla sostenibilità economica e debitoria di lungo termine del Paese.
Prima del vertice odierno dei ministri finanziari, il commissario europeo agli Affari economici Pierre Moscovici aveva dichiarato di aspettarsi per oggi la decisione di rimandare ad Atene il team di esperti incaricati della valutazione delle riforme. Lo stesso ministro tedesco Wolfgang Schaeuble si è detto favorevole a inviare la missione in Grecia già questa settimana. Secondo alcune fonti della zona euro, i rappresentati dei creditori potrebbero arrivare in Grecia già domani.
È comunque evidente che il debito (anzi: il “debito greco”, il debito “dei paesi ad alto debito”) è tornato al centro dell’agenda di Ue ed eurozona: proprio quando il presidente (italiano) della Bce, Mario Draghi, si accinge a produrre il massimo sforzo per convincere i governatori dell’eurozona a proseguire e potenziare una politica monetaria ultra-espansiva.
Non è un caso che ieri lo stesso Padoan abbia tenuto a sottolineare che “il riconoscimento che il debito sia stabilizzato quindi comincerà a scendere e che ci sono alcuni margini di aggiustamento che andranno sfruttati”. Il ministro – che considera “una procedura standard” una lettera in arrivo da Bruxelles – si è però affrettato a confermare anche il piano di privatizzazioni previsto dall’ultimo Def (imperniato essenzialmente sulla quotazione in Borsa delle Fs).
Il premier Matteo Renzi ha a sua volta calcato sul “calo del debito nel 2016” in un’intervista-replica al Financial Times, unitamente all’impegno-previsione di discesa del deficit al 2,5% (l’Eurogruppo ha storto la bocca anche sul deterioramento del deficit strutturale dello 0,7% rispetto a un’attesa di miglioramento dello 0,1%).
Il gelido ritorno delle cifre, in ogni caso, sembra giocare contro l’Italia di Renzi tanto quanto gli bollori verbali fra Roma e Bruxelles. Lo spettro della manovrina estiva ritorna. E soprattutto la “sindrome greca”: quella di una grande operazione taglia debito che un premier aggressivo e spregiudicato come Renzi forse non disdegnerebbe di tentare, ma naturalmente non prima di aver votato. Anzi: di aver vinto le elezioni almeno una volta. Forse per questo sta meditando di lasciar perdere il referendum sulle riforme per giocare tutto su una ruota mai fatta girare in settant’anni di Repubblica: le elezioni politiche in autunno. Soprattutto se la giostra primaverile dei grandi sindaci non risultasse una festa per il Pd renziano.