La Consob ha già avuto almeno un presidente “capro espiatorio”. Non erano ancora trascorsi dieci anni dall’istituzione della Commissione di Borsa e il primo presidente-superstar, l’ancor giovane Guido Rossi, fu costretto a dimettersi dopo un solo anno di mandato: quello trascorso fra la quotazione in Borsa del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi e il tragico crac del 1982. L’incidente non impedì a Rossi di proseguire in un cursus brillantissimo come avvocato d’affari e uomo pubblico.

Pressocché nessun presidente della Commissione – salvo forse Tommaso Padoa-Schioppa, asceso al primo esecutivo Bce dopo un breve mandato all’authority – è passato agli annali con una pagella di pieni voti. Su Enzo Berlanda, forse la figura che meglio ha sintetizzato in Consob preparazione giuridico-economica, conoscenza del mercato ed esperienza politica – si allungò l’ombra di aver favorito Mediobanca, esentando dall’obbligo di Opa i due noccioli duri che conquistarono Comit e Credit appena privatizzati. Luigi Spaventa, il più britannico degli economisti “ciampiani” non riuscì da leader Consob a evitare le accuse di favoritismi verso “la madre di tutte le Opa”: quella lanciata su Telecom da Roberto Colaninno, ma soprattutto dal premier Massimo D’Alema. E non parliamo dei controversi presidenti della fine della Prima Repubblica: Bruno Pazzi, strano tipo di imprenditore cinematografico a Roma; o il predecessore Franco Piga, che a metà mandato si autosospese, fece parte di un governo elettorale, si candidò, fu eletto, rinunciò e tornò in Consob.

A 42 anni dall’istituzione, la Commissione non è mai riuscita a essere davvero autorevole: troppo veloce l’impatto con l’esplosione del capitalismo finanziario interno e internazionale; troppo forte il pressing congiunto della politica e del mercato, desiderosi entrambi di avere a che fare con una “autorità” non completamente tale, comunque meno forte e indipendente di Banca d’Italia (com’era) e della magistratura (com’è stata soprattutto nell’ultimo trentennio, anche in campo finanziario).

Più di trent’anni dopo il “caso Rossi”, comunque, l’attuale presidente della Consob, Giuseppe Vegas, è seriamente candidato a essere rimosso come “capro espiatorio”. I suoi accusatori sono due membri del governo: il neo-ministro dello Sviluppo Carlo Calenda – ex stratega politico di Luca di Montezemolo – e il vice-ministro dell’Economia Enrico Zanetti. Appartengono a un partito defunto (Scelta Civica) e di fatto sono iscritti al “Partito della nazione” del premier. Il loro ex leader ed ex premier Mario Monti si era ben guardato dal mettere in discussione Vegas: nominato dall’ultimo governo Berlusconi, che aveva scelto uno dei vice-ministri di Giulio Tremonti. A parte un’inchiesta giudiziaria su vicende interne alla Consob, Vegas non ha avuto difficoltà neppure con il successore di Monti, Enrico Letta, e neppure con Renzi in carica ormai da due anni.

La Commissione è stata smagrita a tre elementi e poi riportata a cinque. Ha dovuto affrontare le dimissioni traumatiche del commissario Michele Pezzinga, coinvolto a sua volta in un’inchiesta. Ha visto infine arrivare un magistrato di calibro come Michele Berruti. Ha attraversato da regulator un caso spinoso come il crac del gruppo Ligresti. Ma Vegas non è mai stato così vicino alla rimozione come dopo una puntata televisiva di Report che ne ha fatto il colpevole principale del “risparmio tradito” nelle banche regionali: dall’Etruria alle Popolari venete.

Avrebbe dovuto vigilare lui – non la Banca d’Italia – sull’offerta agli sportelli di obbligazioni subordinate o di azioni delle banche fallite o salvate a carissimo prezzo per i risparmiatori. Dunque deve andarsene: lui e solo lui. Magari già prima dei ballottaggi municipali decisivi per il “Partito della nazione” capeggiato da Renzi e dal ministro per le riforme Maria Elena Boschi. Vegas come capro espiatorio di cosa? O come presidente “prorogabile” in cambio di cosa?