Il Montepaschi vorrebbe trasformare in azioni di metà dei 5 miliardi dei suoi bond subordinati in circolazione: quelli in mano ai grandi investitori istituzionali. Lo lascia filtrare (affannosamente) l’amministratore delegato Fabrizio Viola, alla vigilia del consiglio d’amministrazione di oggi: prima verifica di un piano di salvataggio che ogni giorno di più appare a rischio di non decollo. L’ennesimo protrarsi di tutte le incertezze legate all’infinito caso Mps solleva intanto nuovi interrogativi sugli sviluppi dell’intero riassetto bancario italiano: fra politica, vigilanza e mercato.
Il turnaround di Mps è stato impostato un mese fa, la sera stessa della bocciatura del gruppo (unico in Europa) allo stress test dell’Eba. Il progetto – presentato da Viola – è imperniato su una ricapitalizzazione di mercato fino a 5 miliardi, per evitare il ricorso ad aiuti pubblici vietati dalle nuove regole bain-in a meno di coinvolgere nelle perdite le obbligazioni subordinate. All’aumento di capitale hanno pre-offerto garanzia Mediobanca e JPMorganChase, affiancate da uno stuolo di investment bank globali. La manovra di stabilizzazione imposta dalla Bce al Monte include anche lo scorporo in tempi stretti di almeno 10 dei 26 miliardi di “crediti deteriorati” (Npl). A tal fine (guardando anche all’utilizzo delle garanzie statali Gacs) il fondo nazionale salvacredito Atlante-1 ha partorito Atlante 2, dotandolo al momento di 1,7 miliardi. JPMorganChase ha invece garantito – direttamente al premier Matteo Renzi – un prestito-ponte 6 miliardi fino a un anno.
A fine agosto, alcune di queste premesse sono tuttavia già entrate in discussione. Dieci giorni fa Viola è stato raggiunto – assieme all’ex presidente Alessandro Profumo – da un avviso di garanzia per presunta manipolazione del mercato in occasione dei due ultimi aumenti di capitale del Monte. Il presidente di Mps, Massimo Tononi (ex capo della Goldman Sachs in Italia) è stato costretto a smentire voci di dimissionamento del manager. Negli stessi giorni sono tuttavia trapelati rumor di mercato sull’esito negativo dei primi sondaggi per l’aumento Il Sole 24 Ore ha attribuito lo scetticismo dei potenziali investitori all’incertezza politica italiana legata all’appuntamento referendario d’autunno. È tuttavia probabile che le ragioni di fondo siano altre: la poca visibilità dei mercati sulla reale situazione di bilancio del Monte, la scarsa fiducia nell’Azienda-Italia e nelle effettive possibilità del gruppo senese di risollevarsi da solo, dopo il fallimento di due aumenti di capitale da 8 miliardi. Pesano anche le nuove nuvole giudiziarie allungatesi su Mps, sempre a Ferragosto: prima fra tutte la maxi-richiesta danni da parte di Coop Centro Italia, potente centrale della Lega Coop ed ex azionista rilevante a Siena.
Parte evidentemente da qui il tentativo in corsa di un “piano B” da parte dei sostenitori del salvataggio “di mercato”. Fra questi sono certamente da annoverare il management in carica, la Banca d’Italia e il presidente della Bce Mario Draghi, non ultimo il premier Matteo Renzi. Gli obiettivi (interessi) di happy end per un film per ora solo sceneggiato sono abbastanza evidenti. Governo e Bankitalia uscirebbero forse definitivamente dalla lunga impasse bancaria iniziata con le risoluzioni di Etruria & C, nel novembre 2015, con un’effetto-fiducia più generale sul rischio-Italia. Draghi, dal canto suo, vedrebbe allontanarsi dal suo capo le nubi cha gravano da quando – nel 2007 – era il vigilante il Bankitalia allorché Mps acquistò AntonVeneta condannandosi al dissesto attuale. Post-aumento i vertici attuali e Bankitalia potrebbero infine contare su una proprietà nuova, in grado probabilmente di consentire altre operazioni straordinarie di smontaggio e rimontaggio del Monte: sviluppi contro cui un coacervo di forze economiche e politiche, locali e nazionali sta chiaramente tentando l’ultima resistenza a difesa di tutte le “senesità” di Mps.
È una partita che – evidentemente – non sembra consentire pareggi: al pari del referendum sulle riforme. Ed è per questo che a Rocca Salimbeni hanno deciso di scoprire una nuova carta: pesante, ma non necessariamente vincente e controversa nell’utilizzo. I grandi fondi della City e di Wall Street accetterebbero lo swap? Dipende da chi sono oggi i portatori dei bond subordinati Mps e a quale prezzo li hanno incarico. È noto ad esempio che Davide Serra, il finanziere amico di Renzi, ha comprato in gennaio, quando i titoli subordinati del Monte stavano crollando al listino: prezzi di carico bassi potrebbero giustificare un’ulteriore scommessa sulla ripresa futura delle azioni Mps in Borsa. Ma gli investitori istituzionali saranno d’accordo nell’accettare un’operazione comunque rischiosa dalla quale verrebbero invece esclusi i portatori individuali di bond subordinati (le “famiglie”)? In occasione del crack Parmalat non fu fatta distinzione fra grandi e piccoli investitori in obbligazioni di Collecchio al momento della proposta di concambio in azioni.
Il sì del mercato, inoltre, potrebbe non bastare se la vigilanza Bce (guidata dalla francese Danièle Nouy) non fosse a sua volta d’accordo. La supervisione di Francoforte è stata fin qui durissima con le banche italiane: in particolare con le tre Popolari del Nordest (Banco, Vicenza e Veneto). A proposito, l’ipotesi cavata di tasca da Viola pone alla stessa Bce una questione di par condicio a posteriori: anche Popolare di Vicenza e Veneto Banca avevano – e hanno tuttora – centinaia di milioni di bond subordinati in circolazione. Perché in primavera nessuno ha neppure osato proporre alla Bce forme di conversione dei titoli in azioni anche solo per ridurre i fabbisogni patrimoniali imposti a tamburo battente dalla Bce (3,5 miliardi per cassa compreso l’aumento del Banco)? Sarebbe risultato certamente meno urgente e meno impegnativo l’intervento di Atlante, finanziato da banche, assicurazioni e fondazioni italiane. Senza dimenticare aspetti di contorno, ma fino a un certo punto: UniCredit – che non riuscì a garantire l’aumento da 1,5 miliardi della Vicenza su un mercato gelido – è stato a sua volta pesantemente penalizzato in Borsa, ha dovuto rimuovere l’amministratore delegato Federico Ghizzoni e sta ora preparando un proprio aumento di capitale.
Non è detto, tuttavia che Francoforte non conceda oggi a Siena ciò che è stato tassativamente tenuto fuori discussione quattro mesi fa alle banche del Nordest. Il clima politico interno alla Ue dopo Brexit è cambiato. E non va trascurato che il caso Deutsche Bank è tutt’altro che risolto: e la stabilità della maggiore banca tedesca (e della “nuova Ue”) è legata a più di un’intrpretazione condiscendente dei principi contabili di vigilanza.