Se Franco Debenedetti – in passato tre volte senatore per Pds-Ds – dedica su Il Sole 24 Ore un lungo articolo al “caso Ambrosoli” in Banca Popolare di Milano non è banale. Umberto Ambrosoli è il capogruppo del centrosinistra in Regione Lombardia, dopo essere stato nel 2013 lo sfidante di Roberto Maroni. Il figlio dell’avvocato assassinato dalla mafia nel 1979 – in quanto liquidatore della Banca Privata Italiana di Michele Sindona – era stato candidato anzitutto dal Pd in Lombardia in quanto testimonial di una proposta politica di trasparenza, legalità, rappresentanza civile e “superiorità morale” dichiaratamente antitetica ai 18 anni di amministrazione di centrodestra, impersonata da Roberto Formigoni. Gli elettori non lo hanno premiato, ma l’icona è rimasta: anche se nata prima dell’inizio dell’era renziana, che data proprio da quella sconfitta nazionale e locale del Pd.
Nell’autunno 2016 – dopo un triennio abbastanza incolore come leader dell’opposizione al Pirellone – il nome di Ambrosoli è stato indicato dall’attuale vertice della Popolare di Milano per la guida della “nuova Bpm” dopo la fusione con il Banco Popolare (l’azienda bancaria sarà scorporata e manterrà la sua autonomia societaria nel nuovo gruppo per 12-18 mesi). Franco Debenedetti è rimasto molto sorpreso: anni fa lui stesso ha lasciato il board della Bpm dopo aver verificato che le pressioni politiche non erano compatibili con la sua cultura liberale, attenta a separare in modo chiaro, in ogni momento, incarichi istituzionali o di governance di imprese private. Che Ambrosoli abbia rimesso il mandato di coordinatore politico del centrosinistra in consiglio regionale non gli basta: troverebbe corretto che l’avvocato si dimettesse da consigliere (cosa che al momento l’interessato non riterrebbe di fare, considerato l’incarico in Bpm strettamente professionale e a termine).
Debenedetti è incerto se puntare il dito su Ambrosoli o su coloro che gli hanno proposto l’incarico, ma è categorico nel giudicare oggettivamente imbarazzante la posizione del presidente di una banca che – ad esempio – investe assieme alla Regione Lombardia in Brebemi o nel fondo Abitare Sociale. Non ci vuol molto, in ogni caso, a cogliere il disagio di un “senatore” – in tutti i sensi – del centrosinistra di fronte ai modi del Pd odierno sul delicato scacchiere bancario.
In Bpm, fra l’altro, è diventato da pochi mesi presidente del consiglio di sorveglianza Nicola Rossi, lui pure ex senatore del Pd: membro assieme a Debenedetti del consiglio dell’Istituto Bruno Leoni, think tank iper-liberista. Da questo punto d’osservazione Debenedetti giudica non a caso “di eccezionale importanza” la fusione Bpm-Banco Popolare, che proprio per questo andrebbe protetta da nuove ombre di influenze politiche.
Diciotto mesi dopo il blitz del governo Renzi contro le “vecchie Popolari”, pochi giorni dopo che il premier ha ribadito che la politica deve restare fuori dal sistema bancario da consolidare, il cattivo esempio non può venire da un’icona della società civile milanese, sedicente “progressista”.