Il tour de force mediatico di Giulio Tremonti, ieri, non è passato inosservato: un’intervista non di routine siil Corriere della sera (no al referendum di Matteo Renzi) e un mini-saggio sul Sole 24 Ore (no all’ottusa pretesa Ue di tassare alla vecchia maniera Apple & C, ormai più grandi e potenti di un intero continente). Chi ha dedicato più attenzione all’intervista ha forse potuto supporre che l’ex ministro dell’Economia di tutti i governi Berlusconi abbia voluto festeggiare alla sua maniera gli ottant’anni del Cavaliere: marcando la propria presenza nella “terra di nessuno” di un centrodestra percorso per ora da un solitario Stefano Parisi.

A un Tremonti leader post-berlusconiano non crede probabilmente neppure l’interessato. Il momento – l’estate 2011 – è passato da un pezzo: e Berlusconi allora si vide costretto a una ritirata tattica personale, senza poter neppure tentare una resistenza strategica che avrebbe potuto essere utile a lui e forse anche Paese che governava assieme a Tremonti. Ma è su questo coté che l’ennesimo momenti di attivismo mediatico dell’ex ministro assume qualche significato in più: nei giorni in cui l’Italia ha salutato Carlo Azeglio Ciampi.

L’ex capo della Stato – forse più di Romano Prodi – ha incarnato la vera “altra metà d’Italia” (o forse addirittura la “minoranza maggioritaria”) che negli ultimi vent’anni si è tenacemente opposta al “cigno nero” berlusconiano: cui Tremonti ha provato a dare pensiero e razionaluità in campo economico-finanziario. Ed è su questo terreno che il sofisticato trattatello di fiscalità globale polemizza più duramente di quanto possa apparire.

L’Europa “gabelliera” che insegue i giganti della Silicon Valley per tassarli in tutti i sensi ex post, con le regola entiquate degli stati nazionali, è culturalmente obsoleta, scrive Tremonti, e geo-politicamente ridicola. E non ci sono dubbi che sia l’Europa di cui il ciampismo ha fatto ideologia e bandiera – assieme al mercatismo turbofinanziario – per conto del “centrosinistra civile”: l’insieme di forze che ha governato il Paese pur avendo perso tre elezioni e mezzo su cinque e tuttora governa con un premier non democraticamente eletto dopo una “non vittoria” nel 2013.

“Lo vuole l’Europa, lo vogliono i mercati”: è stato il grido che ha coperto tutte le scelte “alte” o “basse” dell’Italia dal 1993 in poi: si trattasse di aderire all’euro o di cacciare Berlusconi; di giocare Telecom in Borsa o di schiacciare il Paese nell’autserity e quindi nella in una stagnazione  se non proprio secolare ormai quasi decennale.

Dove siete voi “italiani d’Europa”; dove voi “italiani dei mercati”? Dove siete voi che accusavate me di “finanza creativa” e avete imbottito il bilancio pubblico di derivati esplosivi? Dove siete voi che predicavate le privatizzazioni e gli investimenti dall’estero e ora volete usare la Cassa depositi e prestiti (che ho inventato io) per salvare il Montepaschi? Vi ricordate quando – all’epoca dei crac Cirio e Parmalat – mi misi a battagliare contro la Banca d’Italia perché non vigilava bene su credito e risparmio? Dove siete voi che mi deridevate in pubblico quando proponevo gli eurobond all’Ecofin prima e più civilmente di quanto Renzi oggi litighi con Berlino e Bruxelles? Dopo il 2011 (Monti, Letta, Renzi) le tasse sono cresciute e la spesa pubblica non è diminuita: cos’è successo, cosa state facendo?

È probabile che Tremonti non avrà ruolo nella Terza Repubblica. Ma alla fine della Seconda – perché qui siamo ancora – ha certamente diritto di porre questioni che – per ragioni diverse – né il centrosinistra, né il centrodestra vogliono affrontare.