E’ possibile – anche se non certo – che il consiglio Bce di ieri e oggi segni la fine di una prima parte della presidenza di Mario Draghi. Ma nulla è sicuro: né che la Bundesbank e gli altri banchieri centrali “falchi” vogliano aprire un processo vero e proprio a Draghi e alle sua conduzione della politica monetaria nell’eurozona; né che, d’altra parte, il presidente rifiuti ogni dialettica sull’euro e rilanci con determinazione il quantitative easing (Qe) anche oltre le frontiere raggiunte finora.
La narrazione mediatica è comunque distinta da molte settimane: la politica monetaria espansiva fortemente voluta da Draghi avrebbe “fallito”. Di ripresa economica nell’eurozona c’è poca traccia (soprattutto in paesi deboli come l’Italia) e manca perfino un pizzico di “benefica” inflazione. Con tutte le conseguenze del caso: non ultima la cattiva salute di molti sistemi bancari oppure un sisma istituzionale-geopolitico come Brexit.
A poco sembrano servire certe difese d’ufficio, alla vigilia del vertice Bce: come quella (debole ma eloquente del clima) con cui il Corriere della Sera ha rivelato che senza i whatever it takes e i bazooka di Draghi la congiuntura deflazionistica sarebbe stata probabilmente ancora peggiore.
Un argomento più intrigante – ma forse spinoso per lo stesso Draghi – è senz’altro rappresentato dalle statistiche pubblicate in questi giorni dall’Ifo, principale centro studi tedesco. Il surplus della bilancia commerciale tedesca è atteso a fine 2016 al record di 310 miliardi, l’8,9% del Pil, più della Cina. Berlino ha incassato l’intero piatto: perfino la Francia o la Finlandia si sono ritrovati a Pil-zero nel primo trimestre 2016.
L’euro indebolito – dalla Bce – sembra dunque aver favorito l’azienda-Germania più di quanto i tassi dell’euro a zero abbiano aiutato il debito pubblico italiano o il salvataggio della Grecia. “Colpa vostra” pensano/dicono i tedeschi: l’euro e il suo cambio sono uguali per Germania e Italia, Francia e Grecia. Sui mercati dei beni e servizi alla fine vince chi è più bravo, più competitivo su prodotti e prezzi. E se a Berlino abbiamo spinto il Pil grazie all’export – beneficiando in pieno anche del prezzo del petrolio eccezionamente basso – voi non avete approfittato della liquidità “dagli elicotteri” decisa dal “vostro” presidente Bce né per riordinare il vostro bilancio pubblico, né per risanare le banche e dare gas creditizio alle vostre imprese. Adesso non è più tempo di tassi zero: non li vuole più neppure la Fed che il “quantitative easing” l’ha inventato, ma come misura temporanea. I tassi zero e l‘helicopter money restano anomalie in un’economia finanziaria sana: è ora di tornare a un definitivo new normal senza prendere in considerazione neppure un istante avventure ulteriori, come la Bce che compra azioni in Borsa (in una Borsa “sana” vogliono semmai tornare a guadagnare i potentissimi fondi pensione tedeschi).
Le contro-argomentazioni possono essere innumerevoli ma – è questo il nodo, anche per Draghi – non sono tecniche ma politiche. L’Azienda-Italia è entrata nella peggiore crisi economico-finanziaria della sua storia nel 2011: quando un violento attacco speculativo al debito sovrano italiano rovesciò il governo Berlusconi. e aprì la strada al governo tecnocratico di Mario Monti. Quest’ultimo ha trasmesso al sistema-Paese un’austerity formalmente suggerita e sottoscritta da Draghi, governatore della Banca d’Italia, designato alla Bce ma non ancora entrato in carica.
E’ stato allora – con il palese favore dei governi di Parigi e Belino – che l’Italia è stata spinta a forza in una spirale deflattiva: che ha distrutto la domanda interna e la fiducia a medio termine di consumatori, imprese, risparmiatori. E’ stato allora che il sistema bancario – che nei tre anni precedenti aveva resistito meglio di altri all’urto del collasso di Wall Street – ha iniziato a implodere fino alla catena di virtuali fallimenti dell’ultimo anno. Senza dimenticare che le regole asimmetriche e iugulatorie dell’Unione bancaria – colpo definitivo alle banche italiane – hanno avuto in Draghi il massimo propugnatore politico e il vero architetto tecnico. Da cinque anni l’azienda-Italia compete con tutt’e due le mani legate dietro la schiena: non avrebbe mai potuto afferrare alcun salvagente con il braccio economico, non ha mai potuto agitare il braccio politico-diplomatico, fino alla frenesia sterile di Renzi durante l’ultimo anno.
Il nuovo terreno di confronto – nella Ue e quindi anche in Bce – è il ritorno alla flessibilità fiscale: dando adito al sospetto che la flessibilità monetaria sia stata anche per i tedeschi – negli ultimi due anni – un comodo paravento per evitare di discutere dei parametri di Maastricht, che tuttora inchiodano i paesi deboli dell’eurozona. Il 2017, intanto, protrebbe essere l’ultimo del cancellierato ormai usurato di Angela Merkel: la vera sponsor di Draghi, chiaramente preferito al duro presidente della Buba Axel Weber come gestore compromissorio di una politica monetaria che – le statistiche di fine 2016 confermano – ha favorito il Pil tedesco e azzerato quello francese e italiano. Mentre in Italia la JPMorganChase arriva – a costo di salatissime commissioni – a raccogliere le ceneri di Mps, vittima (anche) dello scoppio di tutte bolle letali dell’investment banking.
Le vere domande – sul sussidiario ce le poniamo da anni – restano comunque altre. Una delle ragioni dell'”insuccesso” del QE dell’euro è stata sicuramente il suo sfasamento rispetto a quello del dollaro. Draghi – economista e banchiere di scuola anglosassone – ha fatto emergere la sua fiducia intellettuale e operativa nel “modello americano” con anni di ritardo rispetto all’adesione iniziale al rigorismo tedesco: perché? La “questione delle questioni” rimano in ogni caso questa: l’espansionismo monetario Usa – gigantesco e prolungato – ha davvero avuto come finalità la messa in sicurezza delle banche e lo stimolo alla ripresa economica? Oppure fin dall’inizio è stato pensato per garantire “impunità” ai banchieri del 2008 e preservare la turbofinanza da una reale ristrutturazione? Se lo domandano – in questi giorni – coloro che stanno stilando le prime pagelle della presidenza Obama.
Draghi – in silenzio da molte settimane e assente al seminario Fed di Jackson Hole di agosto – terrà una lectio magistralis martedì 13 a Trento, ricevendo il premio De Gasperi. Forse comincerà da lì la sua autodifesa: in un processo in cui, comunque, nessuno sembra poter recitare la parte dell’accusatore e neppure quella del giudice. Tutti sembrano in diverso modo complici e imputati con poche chance di assoluzione piena.