Non è decisamente un buon momento per la Banca d’Italia, a pochi giorni dal tradizionale intervento pubblico del governatore Ignazio Visco al convegno annuale Assiom-Forex. La profonda crisi del sistema bancario domestico non può non avere riflessi sulla “banca delle banche”. E i micro-segnali non meritano meno attenzione di quelli macro: primo fa questi ultimi la messa in cantiere di una commissione parlamentare d’inchiesta sulla crisi del credito, culminata con il salvataggio pubblico di Mps.

Qualche giorno fa, la Banca d’Italia ha organizzato un convegno per lamentare come la strategia di educazione finanziaria nel Paese dopo la grande crisi manchi di una cabina di regia: nei fatti un’autocandidatura – non nuova e insistita – per una nuova missione di “università popolare della finanza e del risparmio”. Via Nazionale sente evidentemente il risentimento pupulista stringersi anche attorno alle proprie sedi provinciali: non meno che a un ufficio studi che – peraltro al pari di tutti gli altri nel mondo – ha previsto poco o male, non ha elaborato ricette efficaci per contrastare instabilità finanziaria e recessione, salvo appiattirsi su tutte le misure di austerity imposte dall’esterno all’Italia. Sono comunque 7mila i dipendenti della Banca d’Italia: pressocché tutti fuori da ogni vincolo vecchio o nuovo per i dipendenti della Pubblica amministrazione; in un ente che ha perduto entrambe le sue storiche ragioni d’essere: la gestione della moneta e – per buona parte – la vigilanza sul sistema finanziario.

In questo primo scorcio d’anno il direttore generale di Bankitalia, Salvatore Rossi, si è comunque segnalato per un nuovo libro: “Che cosa sa fare l’Italia – La nostra economia dopo la grande crisi” (con Anna Giunta). Dello stesso governatore Ignazio Visco – ex capo economista dell’Ocse – si ricordano due recenti fatiche economico-letterarie (“Investire nella conoscenza” e “Perché i tempi stanno cambiando”). Nulla vieta a due economisti di valore riconosciuto di continuare a fare ricerca e opinione. Però sono oggettivamente lontani i tempi in cui il governatore Luigi Einaudi diventava primo presidente eletto dell’Italia repubblicana (dopo di lui Carlo Azeglio Ciampi). E Guido Carli (governatore, ministro del Tesoro, presidente di Confindustria) resta l’italiano che più di altri ha modellato l’economia nazionale nel dopoguerra. Mentre Tommaso Padoa Schioppa è stato un tecnocrate che l’euro “concreto” lo ha costruito con le sue mani, assieme a pochi altri. Non era gente che spendeva le sue giornate scrivendo saggi, soprattutto quando le emergenze premevano e la classe politica a Roma era sempre quella che era.

Del fine settimana, non da ultimo, è la notizia – diffusa dall’influente sito transatlantico Politico – che l’Ombudsman Ue ha aperto un dossier investigativo contro Mario Draghi, presidente della Bce e former governor in Bankitalia. Emily ‘O Reilly, “difensore civico” europeo istituito al Trattato di Maastricht, ha scritto a Draghi citando una denuncia di Kenneth Haar, ricercatore danese del think tank non governativo (Corporate Europe Observatory monitora  da Bruxelles l’azione delle lobby, soprattutto in campo finanziario). O’Reilly ha ritenuto rilevanti la segnalazione riguardante l’appartenenza di Draghi al cosiddetto “Gruppo dei 30”.

Il G30 – nato su iniziativa della Fondazione Rockfeller – è un club di banchieri centrali e ministri finanziari in carica o emeriti, ben miscelati con Nobel per l’Economia e altri influencer fra politica e mercati. Draghi, unico italiano, ne fa parte assieme al predecessore Jean Claude Trichet e all’ex capo della Fed Paul Volcker (entrambi presidenti onorari). Con loro Ben Bernanke e Tim Geithner, il primo ministro del Tesoro di Barack Obama nell’immediato post-Lehman, oggi capo di Warburg Pimco a Wall Street, oppure il Ceo di Credit Suisse, Roger Ferguson; il rettore di Harvard Larry Summers e Paul Krugman, il più influente columnist economico a livello globale. Il G30 una lobby? Un consiglio di saggi per salvare il mondo dalla rovina immanente? O una spectre di super-poteri manipolativi delle democrazie?

Quel che è certo è che il bersaglio è personalmente Draghi, già executive vicepresident di Goldman Sachs in Europa prima di essere paracadutato in via Nazionale, per acquisire definitivamente il pedigree di banchiere centrale ed essere issato al vertice dell’Eurotower. Non sappiamo chi si muova dietro una delle tante Ong-ombra di Bruxelles: ma osserviamo che l’Ombudsman che ha preso totalmente sul serio l’esposto è irlandese come quel Charlie McCreevy che nel 2005 condusse con l’olandese Meelie Kroes la crociata contro la Banca d’Italia di Antonio Fazio. Draghi è stato il successore di Fazio, l’eretico difensore “italianista” delle banche nazionali, cacciato con ignominia da palazzo Koch. Una Bankitalia che tuttavia, dopo di lui, è stata sempre meno stanza dei bottoni e sempre meno scuola di governo. Draghi ci ha abitato poco, svolgendovi per cinque anni gli stretti doveri istituzionali con ampie deleghe al Direttorio (non sempre efficaci, a cominciare dalla vigilanza sull’acquisizione di AntonVeneta da parte di Mps). È stato – in effetti – molto in giro per il mondo: anche al G-30 e soprattutto al Financial Stability Board, anticamera della nomina in Bce nel 2011. 

Nel 2017, la sua leadership a Francoforte è tuttavia in forte difficoltà. Davanti – anche all’ultimo consiglio Bce – ha sempre la faccia feroce del capo della Bundesbank Jens Wiedmann: nemico dell’espansionismo monetario e pronto a denunciare strumentalmente tutti i guai del sistema bancario italiano. Alle proprie spalle, il presidente italiano della Bce, non può più contare sul gioco di squadra con la Fed e sulla sintonia con la finanza globale di mercato, scossa da Brexit e Trumponomics. E certamente, oggi, non può esibire il prestigio appannato della banca centrale italiana.