“Uscita dall’euro: una patrimoniale sui risparmi delle famiglie”. Il titolo – un po’ nascosto all’interno della Repubblica di sabato – è lievemente ambiguo: ai limiti del lapsus (o forse un po’ del fake). Uno può leggere e prendere per buono quello che c’è poi scritto nel testo dell’articolo: “Se l’italia uscirà dall’euro le famiglie italiane vedranno i loro risparmi decurtati come da un’imposta patrimoniale”. Ma vi si può leggere – come retropensiero o anche di più – anche quello che non c’è scritto: “Per restare nell’euro il governo italiano non potrà evitare un’imposta patrimoniale”. Che non sarebbe comunque una lettura antitetica alla prima: ne potrebbe essere invece la conseguenza logica.
La questione sarebbe comunque d’interesse limitato ai “venticinque lettori” manzoniani se l’autore dell’intervento non fosse Filippo Taddei. responsabile economico nel Pd di Matteo Renzi. Non meriterebbe forse approfondimenti se a pubblicarlo non fosse stata Repubblica, il più diffuso quotidiano italiano, flagship del centrosinistra. Se l’articolo non fosse uscito sabato 18 febbraio 2017, all’inizio del fine settimana più critico per il Pd e per il governo Gentiloni.
L’argomentazione di Taddei è in sé abbastanza lineare, ai limiti dello scolastico. Lo sganciamento dell’Italia dall’Unione monetaria comporterebbe il ritorno a una “nuova lira” inevitabilmente svalutata nei confronti dell’euro (e del dollaro, etc) e quindi una brusca erosione del valore economico incorporato nei risparmi finanziari delle famiglie. L’effetto economico atteso sarebbe quindi implicitamente assimilabile a un’imposizione patrimoniale. E per esemplificare l’effetto “percepibile” per i risparmi delle famiglie, Taddei ipotizza un “taglio di capelli” del 20 per cento.
La prospettiva assunta da Taddei non è scorretta, ma è elementare. E l”uscita dall’euro dell’Italia – un paese del G-7 – rimane anzitutto uno scenario abbastanza teorico. Più accreditata nelle simulazioni degli analisti resta l’uscita della sola Germania dall’eurozona, “verso l’alto”. Il cancelliere tedesco Angela Merkel ha d’altronde politicamente prefigurato una possibile Europa “a due velocità”: riarticolata in due zone economico-valutarie agganciate. Ma soprattutto: l’Italia è oggi parte di un sistema finanziario integrato di mercato. Se e quando l’ipotetico sganciamento acquisisse un qualche grado probabilità, la reazione immediata di milioni risparmiatori sarebbe la fuga dai titoli di Stato e dai depositi bancari in euro-lire e la fuga verso qualsiasi attività finanziaria denominata in euro-euro, dollaro o altra valuta sicura. Lo osserva di passaggio anche Taddei, che manca tuttavia di concludere che l”intero sistema-Paese crollerebbe su se stesso prima che le famiglie risparmiatrici arrivassero a misurare i danni “da erosione” sui loro patrimoni. I danni sarebbero semplicemente incalcolabili, non solo per i risparmi delle famiglie.
Lo stesso parametro del 20% appare più politicamente evocativo che economicamente fondato . E’ stato il ritmo più veloce dell’inflazione italiana negli anni ’70, fra choc petroliferi, disavanzi statali gestiti da governi “proporzionali”, spirali salariali da concertazione sindacale all’interno di un’economia semipubblica, . Oppure – quarant’anni dopo – è stato del 21% lo sconto concesso a fatica alla Grecia dai grandi creditori, anzitutto tedeschi, per consentire ad Atene di restare nell’euro.
“Venti-per cento” appare comunque e soprattutto un’efficace aliquota “post-verità”, utile per un gioco mediatico a metà fra sogno politico ad occhi aperti e pesante scommessa elettorale. E’ preferibile uscire dall’euro e perdere subito il 20% deil proprio patrimonio o pagare il 20% del proprio patrimonio e restare nell’euro? E non c’è alcuna alternativa?
Secondo l’ultimo dato rilasciato da Bankitalia la ricchezza finanziaria in senso stretto delle famiglie italiane è stimabile in poco oltre 4mila miliardi di euro (fra depositi bancari, titoli di stato, azioni e obbligazioni private, strumenti di risparmio gestito). Le attività reali delle famiglie – la loro ricchezza immobiliare – secondo l’agenzia delle Entrate valgono più di 6mila miliardi. Diecimila miliardi: sulla carta basterebbe prelevare meno del 10% di questo patrimonio aggregato (ad esempio l’8%, 800 miliardi) per portare il debito pubblico italiano (2.200 miliardi) dal famigerato 130% sul Pil alla media Ue dell’80% (meno della Francia, poco sopra la Germania). Si può fare? Si deve fare? Si può fare diversamente? Chi lo vuol fare, chi non lo vuol fare? Chi farà cosa dopo le elezioni di settembre o febbraio?
Fra sogni e incubi, fra apparenti esercitazioni accademiche e politica (economica) paralizzata, rispondere non è facile. Non lo fa neppure il responsabile economico del Pd: preoccupato di essere – o desideroso di apparire – una buona Cassandra contro la Lega Nord o M5S. Nei fatti Taddei sembra comunque pre-alimentare una pericolosa campagna elettorale in or out riguardo l’Europa (fotocopia del “si o no” del referendum). E se da un lato indica le conseguenze economiche del populismo anti-europeo, dall’altro agita lo spettro tecnocratico di un’Italia dentro l’Europa “al costo stabilito dall’Europa” (un bis moltiplicato dell’austerity post-2011). Ma esiste una “terza via” per l’Italia del 2017 stretta fra Beppe Grillo e Angela Merkel? Se c’è perché il Pd di Matteo Renzi non l’ha seguita negli ultimi mille giorni e non la propone con chiarezza almeno ora? Senza scherzare -minacciare o ricattare – con il fuoco esplosivo della patrimoniale.