La riforma Cartabia del processo penale aveva tra i propri obiettivi quello di decongestionare le procure e i tribunali intasati da un numero impressionante e ingestibile di processi, molti dei quali relativi a reati bagatellari (solo i furti sono oltre un milione l’anno e poi ci sono i danneggiamenti, le minacce, le lesioni di modesta gravità, ecc).



Invece di scegliere la strada della depenalizzazione, che poteva essere interpretata come una sorta di legittimazione di condotte comunque censurabili, il legislatore ha giustamente preferito quella del temperamento del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale estendendo la perseguibilità a querela a delitti originariamente perseguibili d’ufficio e per i quali quindi  obbligatoriamente il pubblico ministero doveva mettere in moto un iter procedimentale lungo e complesso (aprire un fascicolo, fare indagini, chiedere l’archiviazione o il rinvio a giudizio per la celebrazione del processo, ecc.).



Spesso questi procedimenti, lasciati negli armadi per anni perché “scavalcati” da indagini più importanti, finivano poi con la prescrizione.

Si è così scelto, in relazione ad ipotesi delittuose che offendono prevalentemente interessi individuali di natura privatistica, di trasferire in capo alla vittima (attraverso il diritto di interporre querela) la scelta tra il perseguire penalmente il preteso autore del reato o altre soluzioni (una semplice richiesta di scuse o di risarcimento, intentare una causa civile per danni, non fare nulla, eccetera).

Si apprende ora da articoli di stampa e allarmate fonti giudiziarie che alcuni di questi reati, perseguibili fino a ieri d’ufficio e da oggi a querela di parte, sono stati contestati a tre soggetti accusati di essere appartenenti a gruppi criminali e le vittime, interpellate, abbiano scelto di non interporre querela (probabilmente) per timore di subire ritorsioni, determinando così la revoca della  misura cautelare in carcere imposta agli autori dei reati. Tale episodio dimostrerebbe la pericolosità della scelta di politica criminale adottata dal precedente governo: implementare il numero dei reati perseguibili a querela equivale a favorire i mafiosi.



In realtà non è così. Può accadere, ed è sempre accaduto, che a pericolosi criminali imputati di reati gravissimi, naturalmente perseguibili d’ufficio (spaccio di droga, associazione mafiosa, estorsione) siano anche contestati reati meno gravi per i quali è necessaria la querela (minacce, lesioni, danneggiamento, ecc.). Era così anche prima della riforma Cartabia (i reati perseguibili a querela sono sempre esistiti) e mai nessuno se ne è lamentato, per la semplice ragione che comunque gli autori di gravi fatti di criminalità venivano comunque arrestati, giudicati e se ritenuti colpevoli, condannati per i più gravi reati (perseguibili d’ufficio) a loro contestati, rimanendo privo di rilevanza che per le meno gravi violazioni di contorno non venissero perseguiti per mancanza della querela.

Che quello di alcuni interpreti sia un ingiustificato allarmismo lo dimostra il fatto che solo poche testate hanno ricordato anche che i tre pericolosi soggetti cui è stata revocata la misura cautelare per non essere stata interposta querela restano comunque in carcere per rispondere degli altri gravi reati loro contestati.

Certo ogni nuova norma è perfettibile e il ministro della Giustizia, Nordio, ha informato che sta valutando di proporre modifiche che escludano dai reati perseguibili a querela i fatti commessi in contesti mafiosi, ma non appare sensato strumentalizzare ipotesi assolutamente circoscritte per criticare l’impianto di una riforma che va invece condivisa e sostenuta.

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