L’Enciclopedia Treccani definisce l’occupabilità come “la capacità degli individui di essere occupati o di saper cercare attivamente, di trovare e di mantenere un lavoro”. Un neologismo introdotto dalla strategia europea per l’occupazione e pertanto classificato nel “lessico del XXI secolo”. In effetti, negli anni ’90 dello scorso secolo la modernizzazione dei servizi di orientamento e l’incremento delle offerte formative per migliorare le competenze dei lavoratori diventarono l’asse portante delle nuove politiche del lavoro per contrastare gli effetti negativi delle riorganizzazioni aziendali, dell’obsolescenza dei profili professionali e della mobilità del lavoro generati dalle innovazioni tecnologiche, dall’apertura dei mercati internazionali, dalla terziarizzazione delle attività economiche.
I ritardi italiani nel mettere in atto questi orientamenti sono noti. Frutto di un’insensata opposizione ideologica e corporativa verso ogni tentativo di riallineare le nostre politiche del lavoro agli orientamenti europei, a partire da quello intrapreso con Libro Bianco sul mercato del lavoro italiano, redatto da un gruppo di studiosi coordinato dal Prof. Marco Biagi, e dalla legge approvata dal Parlamento dopo la sua tragica scomparsa.
Flessibilità e occupabilità vengono tuttora considerate come una sorta di sterco del diavolo del neocapitalismo mondiale. Frutto di strategie aziendali rivolte a ridimensionare i diritti dei lavoratori e il ruolo delle organizzazioni sindacali. Senza tener conto dell’impatto strutturale di questi cambiamenti che in molti Paesi sviluppati, vedi le dinamiche della crescita dei salari legati alla produttività e dei tassi di occupazione, sono di gran lunga superiori a quelli realizzati in Italia. Le criticità del nostro mercato del lavoro continuano a essere interpretate come la conseguenza naturale dell’incapacità del sistema capitalistico di generare una domanda di lavoro in grado di rispondere ai fabbisogni dell’offerta di lavoro in termini quantitativi (il tasso di occupazione) e qualitativi (le caratteristiche dei rapporti di lavoro e i livelli salariali). Ci sono altri fattori che motivano la bassa crescita della nostra economia negli anni 2000, ma il contributo negativo delle mancate riforme delle politiche del lavoro e del welfare non può essere ignorato.
Il tema dell’occupabilità è ritornato al centro dell’attenzione per l’eccezionale crescita della difficoltà delle imprese di trovare persone coerenti con i fabbisogni nel mercato del lavoro, che riguarda pressoché tutte le tipologie di profili professionali, compresi quelli che non richiedono particolari percorsi di qualificazione.
La crescita dei livelli di scolarizzazione, anche se rimane al di sotto della media europea soprattutto per il numero dei laureati, ha comportato un cambiamento delle aspettative delle giovani generazioni che non ha trovato un’adeguata compensazione nei percorsi di orientamento post-scolastico. La capacità di trasferire le competenze nell’ambito dei percorsi lavorativi per i mestieri e le mansioni esecutive che ha caratterizzato il contributo delle forze di lavoro alla crescita dell’economia nella seconda parte del secolo scorso, si sta progressivamente esaurendo con la fuoriuscita delle generazioni anziane dal mercato del lavoro.
Queste criticità si riflettono anche sulle dinamiche del ricambio generazionale nel lavoro autonomo e nelle piccole imprese, segnalando un cambiamento dell’approccio valoriale delle nuove generazioni verso il lavoro che per intensità non trova riscontri in altri Paesi sviluppati.
Le tecnologie digitali stanno rivoluzionando le organizzazioni del lavoro, le professioni, i rapporti tra i produttori e i fornitori e i client con una velocità che non conosce precedenti storici e che sta mettendo in crisi anche le politiche attive dei Paesi che investito sugli strumenti per integrare i percorsi formativi con quelli lavorativi. Per soddisfare i nuovi fabbisogni di adeguamento e di riconversione delle competenze, che si estendono anche alla qualità dei comportamenti e delle capacità relazionali delle risorse umane, l’offerta formativa deve essere arricchita coinvolgendo in presa diretta gli attori protagonisti: le imprese, i lavoratori, le rappresentanze associative. Il successo delle nuove politiche attive del lavoro, anche per quelli tradizionali (Istituzioni, servizi di intermediazione, enti di formazione), dipende essenzialmente dal grado di responsabilizzazione e di partecipazione dei protagonisti diretti del mondo del lavoro.
La strategia del programma Gol (Garanzia occupabilità lavoratori) finanziato con le risorse europee del Pnrr, rimane fondata sul potenziamento dei servizi pubblici per l’impiego, con l’obiettivo di una presa in carico di 3 milioni di disoccupati per progetti di inserimento nel corso di 5 anni, la programmazione di 800 mila percorsi formativi per adeguare o riconvertire le competenze dei lavoratori e di 200 mila percorsi integrati di formazione e lavoro. Un pannicello caldo rispetto ai livelli di inserimento lavorativo, e di mobilità del lavoro, che coinvolgono ogni anno circa 6 milioni di persone, tra le quali mezzo milione di giovani in uscita dai percorsi scolastici.
Numeri che sostanziano la distanza tra la realtà, ovvero la complessità delle dinamiche della domanda e offerta di lavoro, e la pretesa di poterla governare potenziando i servizi pubblici per l’impiego per valutare in modo astratto il grado di occupabilità dei lavoratori e i percorsi di adeguamento delle loro competenze.
In queste condizioni risulta difficile recuperare, almeno in parte, i nostri ritardi. Come consuetudine, vedi il recente dibattito sulla non occupabilità dei beneficiari del Reddito di cittadinanza, i fallimenti saranno utilizzati come pretesto per allungare il brodo dei sostegni al reddito.
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