La crescita del numero degli occupati nel mese di novembre 2023 (+30mila rispetto al mese precedente) prosegue il trend positivo che è in atto dalla ripresa economica post-pandemia (+1,635 milioni rispetto al mese di gennaio 2021) e aggiorna l’ennesimo record storico dei lavoratori attivi nel nostro mercato del lavoro. In parallelo diminuisce il numero delle persone disoccupate (-66 mila), parte delle quali è rifluita nel bacino delle persone inattive (+48 mila).



L’incremento dell’occupazione si identifica con quello dei lavoratori dipendenti a tempo indeterminato che trova un riscontro puntuale nel confronto annuale con il mese di novembre del 2022 (+551 mila rapporti a tempo pieno rispetto a una crescita totale di 520 mila posti di lavoro). Il dato annuale risulta significativo anche per la quota di donne (+258 mila), che risulta allineata a quella degli uomini, e per la riduzione delle persone disoccupate e inattive, rispettivamente -71 mila e -459 mila. Numeri che hanno contribuito al alzare il tasso di occupazione delle persone in età di lavoro al 61,8% (+1,3% rispetto a novembre 2022) e di aumentare di tre punti quello dell’occupazione femminile. Prosegue anche l’invecchiamento della popolazione che lavora (+477 mila gli over 50 anni), parallelo a quello demografico delle persone in età di lavoro e che risulta decisamente più rilevante rispetto a quello dei giovani under 35 anni di età (+90 mila).



Dopo il recupero delle perdite dei posti di lavoro registrato nel corso dell’emergenza Covid-19, che si è concretizzato nel primo semestre del 2022, l’occupazione è continuata a crescere a un ritmo superiore a quello dell’economia. Le recenti stime dell’Istat per il 2024, pubblicate, il 5 dicembre u.s., prevedono un ulteriore aumento dello 0,8% del numero degli occupati equivalenti al tempo pieno. Che tradotto nel numero dei rapporti, considerando l’incidenza di quelli a tempo parziale, potrebbero consentire al nostro mercato del lavoro di incrementare di oltre l’1% il tasso di occupazione e di superare i 24 milioni di lavoratori attivi in assenza di eventi che possono comportare dei traumi negativi per l’economia.



I dati positivi non devono far trascurare che il nostro tasso di occupazione, cioè il numero delle persone che lavorano rispetto al totale di quelle in età di lavoro, rimane il più basso tra i Paesi sviluppati. Una condizione che risulta complicata anche dalla progressiva riduzione demografica della popolazione in età di lavoro.

Nei tre anni recenti, la riduzione delle persone in età di lavoro, circa mezzo milione, e l’aumento dell’occupazione hanno favorito la riduzione del numero delle persone in cerca di lavoro (-504 mila) e di quelle inattive (-1,504 milioni). A beneficiare di queste tendenze sono in particolare le donne e i giovani che rappresentano i tre quarti dei bacini delle persone potenzialmente occupabili. La crescente difficoltà delle imprese nel trovare personale coerente con i fabbisogni professionali richiesti ha incentivato la tendenza a utilizzare al meglio le risorse umane già disponibili, che trova un riscontro nell’aumento dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato e nel numero delle aziende che stanno attivando i percorsi di formazione e di aggiornamento dei propri dipendenti. Queste politiche per la gestione delle risorse umane comportano anche un positivo effetto anti-ciclico per l’andamento generale dell’occupazione anche nelle fasi di carenza degli ordinativi, grazie alla gestione flessibile degli orari di lavoro nel corso dell’anno e all’utilizzo temporaneo degli ammortizzatori sociali.

Ma devono essere considerati anche i fattori che generano nuovi squilibri nel mercato del lavoro. Aumentano sul piano quantitativo e qualitativo le opportunità per i lavoratori dotati di robusti percorsi professionali, o che si rendono disponibili a svolgere le mansioni richieste, e la mobilità dei lavoratori verso le aree economiche più attrattive. Nel contempo, si riducono le possibilità di accesso al lavoro per i disoccupati che, per diversi motivi, non riscontrano le caratteristiche richieste dalla domanda di lavoro. Una buona parte delle imprese dei settori ad alta intensità di lavoro dà per scontata l’esigenza di dover compensare il turnover per le mansioni esecutive, generato dall’esodo pensionistico dei lavoratori anziani, assumendo nuovi immigrati.

Gli squilibri del mercato del lavoro incrociano quelli in atto tra le imprese e i settori altamente competitivi, che si distinguono per la crescita degli investimenti e della produttività e dei salari rispetto alle attività di molti comparti dei servizi che si mantengono redditizie comprimendo i costi del lavoro anche con l’utilizzo delle prestazioni sommerse.

È la spiegazione fondata delle cause della stagnazione della produttività e dei salari in Italia, del sottoutilizzo delle risorse tecnologiche e umane che caratterizzano interi settori dell’economia e del mercato del lavoro e del mancato ricambio generazionale in diversi segmenti del lavoro autonomo e delle piccole imprese.

Buona parte delle politiche economiche e del lavoro continuano a essere sovrastrutturali rispetto all’evoluzione dei fabbisogni del sistema produttivo. Il tema del raccordo tra i sistemi educativi e formativi e l’evoluzione del mercato del lavoro continua a essere colpevolmente trascurato e persino osteggiato da una parte non marginale del personale docente delle scuole secondarie superiori e delle università.

Nelle condizioni attuali il nostro sistema produttivo non riscontra una disponibilità adeguata di personale professionalizzato per gestire le innovazioni tecnologiche e organizzative, ma fornisce paradossalmente una quota non marginale di giovani diplomati e laureati ai mercati del lavoro di altri Paesi che soddisfano i loro fabbisogni con gli investimenti formativi sovvenzionati dai contribuenti italiani.

Le imprese non trovano lavoratori, si riduce la popolazione in età di lavoro, le risorse per gli investimenti pubblici e privati sono superiori alla nostra capacità di utilizzo. La crescita dei tassi di investimento e della produttività e delle competenze dei lavoratori rappresenta la risposta più efficace. Ma a tener banco a furore di popolo, e con il consenso dei mass media, continuano a essere le richieste di sovvenzionare i redditi delle famiglie da parte dello Stato aumentando il debito pubblico. Una deriva contraria al buon senso, ma che purtroppo viene assecondata da una parte rilevante della classe dirigente politica e sindacale.

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