Possibilità di eutanasia per i malati terminali sotto i dodici anni: la prima linea dei cosiddetti “nuovi diritti” tracciata dal governo olandese del conservatore Mark Rutte porta a compimento il processo di legalizzazione della “buona morte” iniziato proprio nei Paesi Bassi nel lontano 2001. Ma fa di più: evidenzia il paradosso di un continente che da un lato sta combattendo in trincea la battaglia contro l’onda mortifera da Covid-19 e, dall’altro, sancisce il morire come una delle decisioni di cui l’uomo può disporre per sé e per i propri figli.
Il clima è dunque quello di una moderna tecnofagia di dantesca memoria: come il conte Ugolino divorava la sua prole, così le leggi del Regno di Guglielmo Alessandro danno in pasto agli adulti – che potranno decidere per loro – molte piccole vite inconsapevoli, destinate a essere defraudate proprio di quella libertà in nome della quale, diciannove anni fa, si iniziò a legiferare in materia.
Eppure, nonostante ci sarebbero ancora molte cose da dire in proposito, non è questo il punto: la questione è culturale, sociale e antropologica. Culturale perché l’Olanda protestante è ancora prigioniera di un antico assioma che legge l’esperienza del dolore come segno di una divina non-benedizione: nel dolore non c’è niente di positivo per l’uomo, col dolore la vita perde valore, attraverso il dolore il probabile ultimo miglio dell’esistenza umana diventa un anticipo di inferno cui l’uomo, ormai libero dai vincoli imposti dalla natura (e quindi in ulteriore contraddizione con il mantra ecologista del nostro tempo), pone termine in nome della scienza. Dimenticandosi del bisogno dell’amore che da senso ad ogni frammento dell’esistere, barattando quell’amore con una presunta e sbandierata pietà.
Al di là di questo il problema è senza dubbio sociale. Diciamoci chiaramente le cose come stanno: il ragionamento appena esposto appassiona e convince chi contro l’eutanasia si è già schierato, ma non sposta nessun altro. Quello che manca nella società europea è la Chiesa, una storia che trasformi le ragioni per vivere in un’esperienza. La Chiesa cattolica da alcuni decenni ha scelto di non esserci nella babele della società: ritagliandosi pulpiti autoreferenziali in cui avere ragione, o settori sociali in cui fare da “Ong pietosa”, si è ritirata dalla complessa trama del vivere comune. Infatti, salvo poche rare eccezioni, la Chiesa è scomparsa dalla scuola, dal lavoro, dalla politica, dal mondo della comunicazione, dalle università: ha sottratto la propria voce alle grandi questioni del nostro tempo, preferendo tranquille oasi di difesa preconcetta del proprio dogmatismo (alimentate da un uso controverso dei social) alla fatica di stare nell’oggi, di farsi mettere in discussione dalle forze del presente, di diventare possibilità di incontro nei mercati, sui treni, sopra gli autobus, per le strade. Senza una presenza realmente sociale non si può pretendere di mettere in crisi un processo culturale. E questa presenza non può essere una strategia, ma solo una risposta libera ad un Mistero che vive nell’ora e che ci interpella.
Infine il problema è, in ultima istanza, antropologico in quanto “mettere in crisi l’apparato colonizzatore dei moderni conquistadores intellettuali” non significa ritirare fuori il tomismo e spiegarlo con parole povere sui marciapiedi, quanto ricominciare a porre domande vere all’uomo: con queste leggi che ne sarà dei nostri figli? Che ne sarà della loro solidità umana? Che cosa penseranno di se stessi dopo essere scampati al nostro eccidio pietoso solo perché sani? Che cosa faranno quando non saranno più così sani, quando faranno esperienza della rabbia, della sconfitta, dell’ingiustizia? Se oggi li uccidiamo, chi li salverà domani?
Un’indomita passione al cuore dell’uomo: è questo che oggi, in definitiva, manca alla maturità della fede, una fede che si ferma prima, si riduce e non fa altro che tradire se stessa. Ci affanniamo tanto a proteggere la salute e l’economia, ma ci stiamo dimenticando di portare al sicuro il futuro dei giovani, le domande che generano quel futuro, ossia l’unica cosa di cui ha davvero bisogno il mondo per continuare a vivere. Anche davanti all’allettante proposta di finirla qui, di lasciare spazio ad una collettiva eutanasia.