La campana delle Olimpiadi invernali del 2026 non suona soltanto a festa per Milano e per Cortina, le due località promotrici. I suoi rintocchi frastornano anche – per quanto gli interessati non lo ammetteranno mai – le teste dei due leader dell’attuale, brancaleonica maggioranza di governo: Matteo Salvini e Luigi Di Maio.
Partiamo dal Capitano: sì, da Salvini. Questa non è una sua vittoria: è innanzitutto una vittoria di Beppe Sala, suo acerrimo nemico, capo amministrativo di una metropoli che alla Lega non l’ha mai data vinta, e tantomeno a quella militante dell’uomo delle ruspe. Oltretutto, in questo successo c’è stato, a fianco a quello di Sala, un ruolo non marginale di Giancarlo Giorgetti, il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio di cui Salvini ha stima, certo, ma che oggi sta assumendo sempre più la funzione di “signor no” contro le scalmane dei vari leader leghisti provocatori (tipo Borghi) di cui, ahilui, il Capitano ama circondarsi.
E non basta: è una vittoria del Nord, il grande Nord della Padania e del Triveneto, soprattutto il Triveneto, che guarda a Salvini e alle sue recenti sollecitudini per i calabresi, per i campani, per i siciliani stropicciandosi gli occhi dall’incredulità.
Ma come, pensano, un partito che ancora all’articolo 1 dello statuto scrive, come scopo fondante, il conseguimento dell’indipendenza della Padania, che si mette a flirtare con gli elettori terroni? Quale autonomia amministrativa bonaria si potrà mai conquistare per il Nord, fin quando si dovrà soffiare il naso – criticano i dissidenti – a questi elettori meridionali, fisiologicamente orientati ad ottenere solo assistenza? Anche perché immaginatevi solo per un istante che le Olimpiadi avessero potuto essere localizzate a Roma o a Napoli. In un caso del genere la commissione aggiudicatrice tutto avrebbe fatto fuorché affidare il mega-evento a città sconvolte da un insanabile caos.
E veniamo a Luigi Di Maio. La grande esclusa da questa vittoria è Torino, che si è chiamata fuori dalla gara perché la sua sindaca, la pentastellata Chiara Appendino, non ha saputo o voluto imporsi sui mille signornò che albergano nel suo movimento. E l’Appendino è una sindaca carissima a Di Maio. E dunque una città già privata della Tav – che poi si farà, ma prima o poi e non subito, come invece si pensava – a questo punto perde anche le Olimpiadi, che peraltro così bene aveva gestito nel 2006, ma con ben altro sindaco al timone.
La Val di Susa, dove i no-tav sono una minoranza rumorosa ma la maggioranza vera (quella silenziosa) nel treno sperava, si vede sfuggire sotto il naso la possibilità di drenare un po’ di turismo. Insomma, una scelta di passività che non porta proprio da nessuna parte.
Poi, certo: di buono c’è, per il governo e i suoi due bislacchi soci di maggioranza, che se un organismo internazionale importante come il Comitato di assegnazione olimpico riconosce all’Italia tutto il rango che pur serve per ottenere l’affidamento di un evento di simile importanza, è segno che il mondo ancora si fida dell’Italia. Se questa fiducia continuerà ad essere espressa anche dallo spread, ieri ancora attorno a quota 247 (alta, ma non altissima) sarà utile almeno quanto un’Olimpiade.