Olimpiadi, inno alla inclusione e allo sport. Dentro il bailamme di denaro, stride un dato: veder separare in separata sede le paralimpiadi dalle olimpiadi, come se le prime fossero un satellite delle seconde che “bisogna fare” ma che comunque vogliamo tenere un po’ a distanza. Eppure, sacro dio denaro! Anche le paralimpiadi portano spettacolo, spettatori e introiti, se questo è l’unico metro. E se, come speriamo non è l’unico metro, non c’è da fare tanti discorsi per richiedere un’unificazione delle due manifestazioni; certo complessa per gli organizzatori, ma allora davvero inclusiva. Vedere le paralimpiadi separate dallo sport dei normodotati è come vedere le gare femminili fatte in luogo ed epoca diversa da quelle maschili: una cosa fortunatamente oggi impensabile.



Perché allora questa separazione? Solo motivi organizzativi? Oppure ancora pregiudizi? Pensare che vedere correre sulla stessa pista prima gli atleti senza handicap, e mezz’ora dopo quelli che corrono con le protesi possa far venire un tuffo al cuore e incrinare il mondo patinato benpensante.

Eppure il gesto atletico di una Bebe Vio o di un Simone Barlaam non è meno grande e gagliardo di quello di un Jacobs o di un Tamberi. E sono certo che questi ultimi approvano. Così come approva il pubblico pagante che si riversa a migliaia a vedere queste gare atletiche di basket, di tiro con l’arco, di salto in alto fatto da chi necessita una protesi.



La persistenza delle paralimpiadi, seppur in una sorta di riserva indiana, è un messaggio buono, se si considera che potevano non esistere; ma meno buono se si considerano come colonia dei giochi “veri”. Cosa che non è, perché gli atleti con disabilità sono altrettanto atleti di quelli senza protesi. E vedere i loro gesti atletici è stupefacente, avvincente, esaltante.

Riportare i giochi para e “non-para” olimpici in un’unica kermesse è certamente fantascienza in questo mondo che vuole solo vedere la perfezione e illudersi che quello che chiamano perfezione sia perfezione davvero; ma è anche un sassolino nell’ingranaggio hollywoodiano e superomistico.



In un articolo che pubblicai su una rivista di filosofia dello sport, scrivevo. “I Giochi paraolimpici ci aiutano a identificare e superare tre errori morali: la discriminazione, intesa come esclusione sociale delle persone con disabilità; super-umanesimo, inteso come la convinzione che solo le persone super dotate possano essere atleti a pieno titolo; miopia morale, cioè le persone con disabilità devono accontentarsi delle limitate soddisfazioni che possono ottenere autonomamente”.

Il mondo civile si distingue da quello incivile perché sa fornire a chi serve una protesi senza farlo pesare. Ma evidentemente siamo molto indietro. Anzi, la civiltà è che il mondo intero si trasformi in una protesi per chi manca di un arto o della vista, cioè non faccia più distinzioni, sia davvero inclusivo e non competitivo: il mondo delle prestazioni, che tanto condannava Marcuse. Cambiare il mondo è fornire un supporto (protesi) senza farlo pesare! È capire che il mondo è fatto di tante protesi e ognuno di noi ne usa almeno una. Insomma: tutti manchiamo di qualche cosa, e per questo il mondo è davvero una protesi.

Insomma (realtà da censurare per i benpensanti) tutti noi abbiamo una disabilità, ma c’è chi la sa nascondere meglio e chi peggio. E che tutti riceviamo dal mondo degli aiuti protesici, delle protesi, che per i casi più eclatanti sono la sedia a rotelle, il respiratore, il farmaco; ma nei casi quotidiani (di noi bravi nasconditori di disabilità) è la presenza della persona amata, l’indicazione del medico, un libro, una carezza; per diventare poi (sbagliando!) l’alcol o i suoi condomini, cioè le droghe e il fumo.

Diciamolo: questo mondo è fatto per i sani, per chi sa autogestirsi. E anche la medicina segue l’andazzo diventando talvolta una medicina che quasi abbandona chi non può tornare ad essere “efficiente”, e che ignora la ricerca per sanare le malattie cosiddette “rare”, cioè, che non portano soldi con la vendita dei farmaci.

Unire le gare olimpiche e paralimpiche (a proposito, che brutto nome! Come se le seconde fossero le colonie delle prime) sarebbe riconoscersi tutti carenti, necessitanti di appoggio; di pròtesi che hanno mille nomi, che vengono da persone e organizzazioni che prestano e ricevono compagnia e sostegno.

Siamo tutti disabili. Ma questo è proprio quello che non vogliamo ammettere.

 

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