La tendenza a considerare l’attacco del 7 ottobre ad Israele da parte di Hamas null’altro che il capitolo più cruento del lunghissimo conflitto israelo-palestinese concentra le opinioni pubbliche ed i media dei Paesi occidentali e di quelli arabi su un solo elemento del puzzle ed apre alla logica della guerra regionale i cui ruoli per gli attori – siano essi l’Iran ed Hezbollah piuttosto che Egitto, Libano, Siria e Giordania – sono già definiti.
Basterebbe invece un’occhiata rapida alla cartina geografica e alla sequenza dei conflitti che a partire dall’invasione russa dell’Ucraina hanno ripreso vigore o si sono proposti per la prima volta sullo scenario globale, per rendersi conto che l’onda lunga del braccio di ferro tra Cina e Russia da un lato e Stati Uniti con i loro riottosi alleati europei dall’altro sta entrando in una nuova fase.
Per capirlo è sufficiente focalizzare come la strategia di Mosca, peraltro oggi dietro anche la gestione operativa dei siti internet di Hamas per il tramite dei suoi gruppi di hacker mercenari, abbia mosso in questi mesi leve che vanno dal confronto serbo-kosovaro all’apparente marcia indietro nello scacchiere centro-caucasico, dove il passo indietro rispetto alle nuove ambizioni panturche coincide con il desiderio di sbarazzarsi di alleati, gli armeni, ritenuti ormai non più affidabili dopo il riconoscimento da parte di quel parlamento della Corte penale internazionale.
Queste mosse sono un tutt’uno con la tela pazientemente tesa in Siria, in difesa di Assad dall’Isis, fino ai tanti Paesi dell’Africa francofona sottratti alla influenza di Parigi con l’uso dosato della Wagner e delle promesse fatte ai militari autori di una impressionante sequenza di colpi di Stato.
Inutile dire che il tornaconto cinese prende le forme di un incasso che non è ormai più solo quello dell’influenza economico-finanziaria nello scacchiere euromediterraneo. Pechino gioca appieno la sfida con Washington e risponde alla guerra commerciale iniziata dagli Stati Uniti ed addirittura annunciata in Europa da Ursula von der Layen pochi giorni fa, rispondendo colpo su colpo e provando a schierare nella contesa i Paesi Brics con la promessa della de-dollarizzazione dell’economia.
Difficilmente verremo fuori da questa crisi senza partorire nuovi equilibri mondiali. Ed il ruolo che avranno in questa circostanza i sauditi, i turchi e gli indiani è tutto da scoprire, perché nessuna delle alleanze del passato può essere data per scontata.
Nello stesso tempo sbaglia chi pensa che tutto si risolverà con un nulla di fatto, che la tanto attesa offensiva di Israele infine non verrà. Essa ci sarà. Non per il desiderio di vendicare il dolore, la smania di sfogare la rabbia da parte dei soldati di Tsahal colti di sorpresa il 7 ottobre e ora vogliosi di vendetta sui terroristi di Hamas. E nemmeno per la volontà di Bibi Netanyahu di dimostrare ai suoi concittadini di essere ancora il leader più adeguato alle necessità della sicurezza di Israele.
Il punto è che Tel Aviv convive con la consapevolezza che una mancata risposta condurrebbe alla negazione dello Stato ebraico per come fino ad oggi lo abbiamo considerato. E questa sarebbe la fine di Israele.
Si dice che nel gabinetto di guerra israeliano, nel confronto che da giorni vede impegnati politici e militari, gli Stati Uniti abbiano colto con preoccupazione la presenza di una dinamica analoga a quella che portò vent’anni fa alla decisione di invadere l’Iraq. Al di là della compattezza di facciata, ritrovata grazie alla formazione di un governo di unità nazionale, falchi e colombe combattono così ogni giorno una piccola guerra sulle decisioni da prendere. E come in queste circostanze accade, nell’impossibilità di trovare una sintesi, è il peso stesso della storia a stabilire la linea vincente, e il futuro della nazione. Una consapevolezza che è sembrata non appartenere ai leader arabi ed europei che, riuniti al Cairo nei giorni scorsi, sono parsi all’oscuro di quanto sta realmente avvenendo e decisi a mantenere ognuno le proprie posizioni senza comprendere che ci sono momenti in cui, a troppi, la guerra e non la pace appare la cosa più conveniente.
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