Resta ancora incerto il quadro relativo ai dazi reciproci americani la cui introduzione è stata annunciata da Donald Trump per il 2 aprile. Al momento la posizione europea è quella di attesa, visto il rinvio a metà aprile dell’entrata in vigore dei contro-dazi relativi come risposta alla tariffa del 25% imposta sull’import americano di acciaio e alluminio. Abbiamo chiesto un commento a Mario Deaglio, professore emerito di economia internazionale all’Università di Torino.
Che idea si è fatto dopo che Trump ha detto che alcuni settori potrebbero essere esclusi dai dazi reciproci che dovrebbero entrare in vigore il 2 aprile?
Mi sembra stia emergendo una distanza tra le dichiarazioni iniziali e la concreta applicazione di alcuni provvedimenti. Non solo per quanto riguarda i dazi, ma anche, per esempio, sull’espulsione degli immigrati, che non è stata così massiccia come si poteva pensare qualche mese fa, anche perché c’è il rischio di mettere in difficoltà alcuni settori come l’agricoltura, che potrebbero restare senza forza lavoro.
Difficile orientarsi in una situazione del genere…
Se da un lato si può rimanere piuttosto spaesati di fronte a questa situazione, che contempla anche il fatto che un giornalista sia stato erroneamente aggiunto a una chat riservata della Casa Bianca, dall’altro, a ben vedere, non siamo di fronte a uno scenario inedito negli Stati Uniti: anche Biden ha utilizzato i dazi. Ci si scandalizza per la volontà di Trump di comprare la Groenlandia, dimenticandosi l’acquisto dell’Alaska dall’Impero russo avvenuta a metà del XIX secolo. La verità è che forse esistono due anime degli Usa: una più intellettuale e aperta all’Europa e l’altra più dura, legata all’America più profonda.
Questa situazione non rischia di disorientare anche la Fed?
La Federal Reserve è totalmente indipendente e il mandato di Powell scadrà l’anno prossimo. Certamente l’introduzione di dazi non può che spingere l’inflazione verso un rialzo, con ciò che ne consegue per la politica monetaria della Banca centrale. Bisognerà, quindi, vedere quali saranno le decisioni effettive della Casa Bianca.
L’Ue ha fatto bene a rinviare a metà aprile l’introduzione dei contro-dazi?
Penso di sì, proprio perché ancora non sono chiare le vere intenzioni di Washington. Sarebbe bene evitare di introdurre questi contro-dazi prima dei dazi reciproci degli Usa, così da non fornire un alibi per tariffe particolarmente penalizzanti.
Questo anche se i contro-dazi europei rappresentano una risposta alle tariffe già introdotte dagli Usa su acciaio e alluminio?
Credo che non sia opportuno rischiare di alimentare una guerra commerciale solo per questi prodotti – che rappresentano una quota relativamente piccola delle esportazioni Ue verso gli Stati Uniti – e che pertanto sia meglio evitare di mostrarsi aggressivi fintanto che non sarà necessario.
Questa settimana è in programma la visita del commissario europeo al Commercio a Pechino. L’Ue fa bene a cercare rapporti più stretti con la Cina?
Assolutamente sì. Credo anche che l’idea di Pechino non sia quella di usare l’Europa come luogo dove realizzare l’ultima fase di lavorazione di semilavorati e componenti cinesi, le cosiddette “fabbriche cacciavite”, ma anche di progettazione e produzione completa. Non penso sia un caso che Byd abbia stretto accordi con Pirelli e Brembo e organizzato un evento a Torino per rafforzare i legami con la filiera italiana della componentistica auto.
Quale potrebbe essere la reazione americana a questo tipo di rapporto tra Cina e Ue?
Com’è emerso dalla chat riservata a cui è stato erroneamente aggiunto anche il direttore di “The Atlantic”, tra i vertici dell’Amministrazione americana l’Europa non è considerata troppo bene. Detto questo, se la “partnership” tra Ue e Cina fosse limitata ad alcuni specifici settori, come l’auto, non credo che per Washington sarebbe un problema. Se, invece, dovesse andare oltre, potrebbe diventarlo. Non va, infatti, trascurato un elemento importante per gli Usa che ha che fare con le strategie di Pechino.
A che cosa si riferisce?
Alla sfida dei Brics al dollaro, con la volontà di dar vita a una valuta alternativa per gli scambi internazionali, ancorata all’oro. Se a questo gruppo di Paesi emergenti dovesse unirsi anche l’Arabia Saudita, che al momento ha congelato la sua adesione, e cambiare la valuta di riferimento per i contratti relativi al suo petrolio, la moneta americana potrebbe subire un duro colpo.
Per Washington c’è, quindi, la necessità di mantenere lo status di valuta di riferimento per gli scambi internazionali del dollaro?
Sì. Questa necessità costituisce un po’ il limite oltre il quale gli Stati Uniti non possono spingersi nel mettere in campo le politiche, economiche e non solo, che forse desidererebbero attuare. Lo scenario internazionale in questa fase è molto complicato ed è, quindi, difficile individuare delle chiare linee di azione.
(Lorenzo Torrisi)
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