Dopo mesi di terrore, con le prime linee degli ospedali completamente sbaragliate, i medici di famiglia silenziati nella “vigile attesa”, le scuole chiuse, gli incontri vietati e il coprifuoco, la minaccia delle varianti (opportunamente pubblicizzate con il caso di Manaus in Brasile o con i nuovi focolai nel Regno Unito) il Covid fornisce all’esecutivo più di una buona ragione per prolungare lo stato d’emergenza.



Una tale scelta appare ai più come una misura rassicurante per una pandemia che, per quanto non diversa dalle precedenti, ha comunque potuto avvalersi di fragilità strutturali e scelte politiche pronte ad aprirle le porte e a facilitarne l’opera.

Ci sono diverse ragioni per temere la scelta di prolungare lo stato di emergenza oltre il 31 dicembre.



Le più importanti sono, naturalmente, di ordine istituzionale. L’aver cambiato le regole del gioco immettendone altre, segna un pericoloso punto di non ritorno per l’attuale modello societario. Una società che da oltre vent’anni ha iniziato a ragionare secondo il registro delle opportunità e le ha pragmaticamente perseguite, non vede nessuna difficoltà a prolungare uno stato di emergenza che alla sicurezza contro la pandemia sembra unire la capacità operativa di un governo del Presidente.

Tuttavia è difficile non vedere, dietro la legittima preoccupazione per una pandemia infinita, la tentazione di una svolta strutturale, un vero e proprio cambio di passo destinato ad anestetizzare il sistema parlamentare, percepito come il luogo della costante inefficacia.



L’Italia non presenta forse da vent’anni le caratteristiche di un’emergenza permanente (occupazionale, produttiva, amministrativa, perfino scolastica) che va ben al di là della pandemia? Chi può negare una simile realtà? Come non vedere crescere il desiderio di aggirare un Parlamento da anni rissoso e improduttivo? Cos’è il non voto alle amministrative se non la conseguenza dell’aver percepito, magari a torto ma concretamente, un’impossibilità reale ad amministrare? Un’impossibilità tanto più grave quanto più non risiede affatto in una presunta immoralità dei singoli – come spesso è avvenuto in passato – quanto piuttosto nella logica di funzionamento dell’intero sistema? Lanciare l’avvertimento attraverso l’abbandono del proprio diritto al voto è il segnale più che esplicito di una defezione che, per ora, si è scaricata sulle periferie amministrative, ma che certamente non mancherà di scatenarsi al centro, cioè nella costituzione del prossimo Parlamento, non appena le urne verranno finalmente riaperte.

Così, dietro un’emergenza Covid costantemente reiterata, si cela anche e soprattutto un tessuto sociale oramai politicamente fragile, pronto a firmare qualsiasi delega. La paura per il Covid, insediatasi in un’Italia già gonfia di disillusioni e disincanti, può ampiamente funzionare come il cavallo di Troia per espugnare un Parlamento che non ha fatto molto per farsi amare, anche quando ad insediarvisi, per di più in una posizione tutt’altro che marginale, erano stati proprio coloro che volevano rivoluzionarlo da cima a fondo.

Il problema di un eventuale prolungamento dello stato di emergenza richiede la necessità di soppesare, accanto ai vantaggi, i rischi che inevitabilmente comporta, chiedendosi quindi se ne vale la pena. Dal momento che ogni prolungamento dello stato di emergenza rappresenta, di fatto, un riconoscimento del Covid come novità assoluta, tale da stravolgere l’impianto legislativo vigente, vale allora la pena chiedersi non solo se ciò corrisponda effettivamente alla verità (vi sono ottimi motivi per pensare che il Covid non rappresenti affatto una novità dal punto di vista epidemiologico), ma anche se ciò non porti effetti secondari ancora più gravi.

È bene chiedersi se vale la pena lasciare che la paura non si imbatta in nessun segnale autorevole che la ricacci indietro, riportando il Covid nell’alveo delle pandemie già note e, proprio per questo, aggredibili, curabili, come già sta accadendo con gli attuali 4,5 milioni di guariti e dimessi dagli ospedali. Recuperare la fiducia, riportare la pandemia là dove può essere curata, riformando i protocolli di intervento è, certamente, la prima e più radicale emergenza che adesso incombe.

Con lo stato di emergenza non si costituisce nessuna base fiduciaria per rilanciare il paese e la fiducia costituisce, oggi, un sentimento indispensabile, un vero e proprio “vaccino morale” del quale abbiamo tutti urgente bisogno, finendo così con il costituire la vera priorità.

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