Il passaggio d’epoca in cui siamo immersi impone a tutte le grandi e medie potenze mondiali di compiere scelte cruciali. È un obbligo che deriva dalla trasformazione in corso nell’economia mondiale.
Si tratta di un passaggio assai simile a quello cinque-seicentesco che impose la corsa atlantica a tutto il pianeta sostituendo il passo mediterraneo.
L’oro di Potosí cambiava le ragioni di scambio, così come oggi il passaggio dall’Atlantico all’Indo-Pacifico riclassifica le contraddizioni sempiterne tra necessità della centralizzazione capitalistica e inevitabilità del conflitto inter-imperialistico.
Allora fu la lotta tra Spagna, Francia e Regno Unito che si sarebbe spostata in India e in Nordamerica, come dimostrò la guerra settecentesca dei Sette anni. Oggi – anche in questo caso con il profilarsi di un conflitto possibile su scala mondiale anni e anni dopo la trasformazione socioeconomica (come ci insegnava Raymond Aron, non c’è causalità meccanica immediata tra conflitto economico e conflitto bellico ma sempre di lungo periodo) – la potenza mondiale dominante, come sempre nella storia concreta, riflette in sé tutti i possibili sentieri con cui riscrivere le relazioni di potenza. E qui si parla del confronto degli Usa con la Cina.
L’establishment nordamericano si divide tra le faglie, di varia profondità, dei realistici classici e neoconservatori alla Kissinger e Yellen, dei realisti bipartisan alla Niall Ferguson e Paul Kennedy, dei liberali alla Pelosi e Warren. Ma tutti si trovano dinanzi alla prova del fuoco del dilemma egemonico, come accadde al Regno Unito di più di cento anni or sono nei confronti dell’Impero guglielmino: garantire l’ordine liberale farebbe diventare di loro le prime vittime di tale operazione. Mettere in atto infatti misure di repressione economica nei confronti della Cina colpirebbe la loro stessa potenza, tanto sono connessi con il capitalismo cinese a dittatura terroristica che loro stessi hanno creato.
Nei confronti della Cina non possono pertanto utilizzare l’arma usata contro la Russia, dove la distruzione di quell’ordine è stata ed è fatta pagare alla Germania e all’Unione Europea.
Anche questa volta funziona la “legge di Ludwig Dehio”: la via d’uscita dal dilemma del prigioniero si ottiene facendone pagare il prezzo ai nuovi entranti nell’agone del confronto. Nuovi entranti che così si accollano il costo dell’egemonia, come accade in Ucraina con la riconfigurazione della Nato e la definitiva sottomissione della Germania.
Un’operazione siffatta è però impossibile nell’Indo-Pacifico: la Cina è troppo grande e il Giappone ha iniziato tardi la corsa nucleare.
In definitiva, il conflitto tra gli oligarchi nazionalisti ucraini e gli oligarchi imperialisti russi consente agli Usa di prendere tempo e di schierare le zone cuscinetto delle grandi potenze. Il vero interrogativo viene però, come sempre, dalla fonte del nuovo “oro di Potosí”: il bistrattato petrolio del Grande Medio Oriente, che nessun artificio retorico può – ancora per lunghi anni – sostituire.
Chi prevarrà negli Stati Uniti? Rispondere a questa domanda è a tutt’oggi impossibile. Certo la battaglia inter-imperialistica impone il dislocamento di nuove flotte di potenze statuali energetiche, militari e demografiche. In fondo il conflitto tra Mar Baltico e Mar Nero serve a prendere tempo prima della battaglia indo-pacifica. Quella finale?
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