Nei giorni scorsi, 16 e 17 maggio, presso la Veneranda Biblioteca Ambrosiana, si è tenuto un convegno, preparato da anni, sul tema della parola “crisi” e sui suoi diversi significati nelle lingue del continente euroasiatico. L’idea del convegno è venuta dal professor Emanuele Banfi in epoca di pandemia e poi resa ancora più attuale dalla guerra in Ucraina (tutt’altro che conclusa).
In attesa della pubblicazione degli atti mi permetto di anticipare alcuni contenuti e alcune riflessioni. In particolare vorrei soffermarmi sulla sensazione che in questo momento si sta sottovalutando l’importanza dell’Asia e il peso che questo “mondo” si prepara ad avere e già ha ottenuto nel quadro della politica e della cultura internazionale. L’Asia non è solo la Cina e il suo incombere in tutte le vicende del mondo, Ucraina compresa.
È interessante notare come nella lingua sino-nipponica la parola crisi è indicata da due segni: uno rappresenta la persona in equilibrio stabile sulla cima di una montagna; nell’altro segno la persona è in ginocchio su un dirupo che incombe su di lei. Le due parole, in cinese weij e in giapponese kiki, esprimono l’idea del momento di passaggio in cui tutto può accadere. In verità l’Asia è un universo dove stanno emergendo, anche dentro la cultura politica marxista di cui a molti la Cina sembra indegna egemone, nuove forme di critica radicale.
Ne è un esempio Kohei Saito, professore associato all’Università di Tokyo. Questo giovane ricercatore ha studiato dal 2005 al 2009 presso la Wesleyan University-Connecticut. Saito inizia da una rilettura di una parte della riflessione di Marx, per anni poco considerata, sugli influssi ecologici del sistema di produzione. Sembrerebbe che il filosofo tedesco passi da una posizione che richiede una maggiore valorizzazione dei lavoratori nel sistema produttivo a una critica del sistema produttivo stesso. E che dal 1868, anno in cui Marx rivede la sua visione del materialismo storico espressa in gioventù, cominci una critica al concetto di crescita.
Questo dà lo spunto a Saito, in particolare nel suo saggio Capital in the Anthropocene, che sarà probabilmente pubblicato in italiano da Einaudi in autunno, per criticare a sua volta i sistemi di crescita attuali della produzione. In particolare considera gli obiettivi di sviluppo sostenibili proposti dall’Onu e spesso fatti propri dalla sinistra dei Paesi occidentali. Arriva a chiamare polemicamente questi obiettivi come il nuovo “oppio del popolo”.
Quindi non una crescita verde è necessaria, bensì una ragionevole decrescita. Saito dubita che questa possa essere guidata dallo Stato, che dovrebbe semplicemente affidarla a movimenti cooperativi popolari che sono più vicini ai veri bisogni della gente. Non si tratta di tornare all’età della pietra, ma di fare in modo che la tecnologia venga in aiuto a bisogni più ridotti, nel senso di più adeguati a un modo più umano di vivere. È chiaro che a questo punto si rende inevitabile una domanda su cosa significhi un modo più umano di vivere, ma su questo l’impossibilità di Saito di uscire da una visione materialistica della vita gli impedisce di andare oltre a situazioni difficili da identificare se non col criterio di ciò che è più comodo.
Ad esempio, la proposta di una riduzione degli orari di lavoro, che indubbiamente in molti Paesi dell’Asia sono spesso di gran lunga superiori ai nostri, pone una questione sul risignificare il tempo del lavoro stesso, come tempo creativo e di autorealizzazione, e non solo di fatica. Il nuovo stesso rapporto con la natura richiederebbe una riflessione più approfondita in un momento in cui a qualcuno parrebbe che l’uomo è un problema per una natura che sarebbe migliore senza di lui.
Ascoltando in Ambrosiana le relazioni su questi temi mi veniva in mente anche la questione della futura ricostruzione che sarà necessaria in Ucraina dopo la guerra. Pensavo a quei palazzi del tempo sovietico, tutti uguali e tutti ugualmente brutti in tutti i Paesi ex sovietici e ora distrutti. Lungi da me il compiacermi della loro distruzione, che ha comportato oltre che migliaia di morti violente anche la cancellazione della storia di molte famiglie, ma dovendo comunque ricostruire, e non solo degli edifici, si impone il compito di ripensare a modelli di vita sociale. Una vita sociale certamente segnata dal dolore, ma anche dalla speranza di riprendere a vivere e di proporsi come un esempio di vita in ripresa. E di questo l’Europa, e non solo, ha un maledetto bisogno.
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