Nella homepage riflessiva dello shabbat, Haaretz (principale quotidiano progressista israeliano) ha tenuto in evidenza due titoli. In apertura: “Esattamente come Netanyahu, non considerate Johnson out”. Poi – prima fra le top weekend reads – “Biden-Lapid vs Netanyahu-Trump: una lotta per il destino del popolo ebraico”. Difficile linkare in modo più efficace – citando tutti i nomi-chiave – i temi (geo)politici dei prossimi 130 giorni: già in sorpasso veloce su temi, link e nomi dei 130 giorni appena trascorsi, principalmente nel teatro russo-ucraino.
Dunque: il futuro (il “destino”) degli Stati Uniti – da quello personale del presidente Joe Biden a quello geopolitico della nuova confrontation fra Occidente euramericano e Oriente russo-cinese – conoscerà un primo momento di verifica nel due appuntamenti di democrazia elettorale che interesseranno Usa e Israele all’inizio di novembre.
Il primo del mese si terranno le elezioni politiche nello Stato ebraico: le quinte in tre anni, meno di un anno e mezzo dopo la caduta di Bibi Netanyahu, super-Premier a Gerusalemme per il decennio precedente. Il suo vero sfidante – a sbarrargli la strada del ritorno – sarà Yair Lapid: attuale Premier reggente dopo le dimissioni di Naftaly Bennet, di cui il leader del partito centrista Yesh Atid è stato vice e ministro degli Esteri. Il ruolo di caretaker di Lapid è un primo link con il caso Johnson, che ha terremotato la politica internazionale tanto quella domestica. Lo stesso Premier britannico vorrebbe restare a Downing Street fino a dopo l’estate, presumibilmente sperando in sviluppi in Ucraina: dove la Gran Bretagna ha finora interpretato il massimalismo militarista anti-putiniano più degli stessi Usa al comando della Nato.
Il centro-sinistra israeliano è dal canto suo preoccupato (comprensibilmente) che quattro mesi di interim da parte di Lapid – a suo modo coinvolto nella caduta della coalizione multicolore di Bennet – siano pericolosi: e possano addirittura favorire il ritorno di Netanyahu al potere (esattamente come non tutti a Londra sono convinti che “BoJo” abbia definitivamente perso il suo smalto come leader elettorale dei Tory). Il match elettorale di novembre in Israele, comunque, ha già un’etichetta: referendum finale su “King Bibi”. Il quale in campagna elettorale potrà ancora esibire il “Patto di Abramo” siglato alla Casa Bianca nel gennaio 2020 alla presenza di Donald Trump. Quello schema prevedeva la sostanziale annessione allo Stato ebraico dei Territori a ovest dl Giordano in cambio di garanzie civili e soprattutto finanziarie per la popolazione palestinese. Il documento è stato già controfirmato da Marocco ed Emirati Arabi Uniti, ed è sul tavolo di Mohammed bin Salman, l’emergentissimo principe reggente dell’Arabia Saudita, riserva petrolifera del mondo.
Succeduto a Trump, Biden non ha per ora fatto propria ma neppure denunciato quella svolta. E lo showdown russo-ucraino ha reso ancor più delicata la questione della stabilità mediorientale (soprattutto ai confini iraniani) e il ruolo globale di Israele: per ora infatti sostanzialmente neutrale fra Mosca e Kiev, senza compromissioni della spregiudicata diplomazia economica sviluppata da Netanyahu, non solo verso la Russia, ma anzitutto verso la Cina.
Il presidente Usa è annunciato da settimane a Gerusalemme: avrebbe dovuto volarvi in giugno, mentre a quasi metà luglio non c’è ancora una data. Lapid promette ora un’accoglienza meno problematica di Bennet: che era pur sempre un dissidente della destra di Netanyahu e che – soprattutto – era un finanziere specializzato in tecnologie militari, figlio dell’ala destra della grande comunità ebraica americana. Nettamente collegata con “Bibi” e con il suo “grande amico” Trump.
Rimane il fatto che Lapid è un para-Premier ricandidato, mentre è chiaro che quello israeliano resta uno dei molti dilemmi che assillano il presidente “dem” al giro di boa del suo mandato alla Casa Bianca. Se Biden legittimasse in modo aperto il “Patto di Abramo” sposerebbe il controverso “annessionismo” della destra nazionalista israeliana proprio quando negli Usa il confronto con il trumpismo “golpista” ha superato la linea rossa. E proprio quando Biden è ai minimi di popolarità per una gestione incerta e inflazionistica della politica economica.
Ma soprattutto: Biden affronterà a sua volta le urne una settimana dopo Lapid, nel midterm americano che rinnoverà l’intera Camera dei rappresentanti, un terzo del Senato e 39 governatori. I sondaggi a oggi sono pessimi per i “dem”: perfino il Washington Post pronostica un possibile “uragano di potenza 5” dopo l’8 novembre. Sono anzi gli stessi “dem” ad accreditare la possibile rinuncia anticipata di Biden alla ricandidatura nel 2024: passo rischiosissimo sul piano geopolitico (chiunque – a cominciare da Putin e Xi – si sentirebbe autorizzato a snobbare ogni negoziato con Washington). Ma è sul piano politico-elettorale interno che i “dem” statunitensi scorgono una spericoltata “concertazione” con i repubblicani: in direzione di un’incriminazione di Trump per l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021, con una sorta di “azzeramento bilanciato” della politica americana dopo 12 anni di obamismo-bidenismo mai convincente e quattro anni di trumpismo tuttora indigeribile per l’intero establishment politico-finanziario statunitense.
Lo stesso scenario, per molti versi, accompagna l’ennesima campagna elettorale israeliana: il Paese – almeno nella maggioranza della classe dirigente – considera superati contenuti e stile di governo di Netanyahu e lo tiene in scacco attraverso alcune inchieste giudiziarie per presunti illeciti fra finanza e politica. Ma “Bibi” è tuttora uno spettro incombente in carne e ossa, non un fantasma innocuo. Ed è su questo versante che la spaccatura nella società israeliana e nella comunità ebraica americana incontra linee di congruenza diretta con il conflitto russo-ucraino.
A Mosca il rabbino capo ha dovuto lasciare casa e ruolo per non aver espresso un endorsement alla guerra di Vladimir Putin. Ma le molte centinaia di migliaia di ebrei russi emigrati negli ultimi decenni nella Terra dei Padri non sono affatto dalla parte del Presidente (israelita) ucraino Volodymyr Zelensky e sono favorevoli, al massimo, all’accoglienza di profughi ucraini di fede israelita. Votano in larga maggioranza Likud o altre forze della destra sovranista e religiosa, che spinge per la colonizzazione formale dei Territori. È anche per questo che Biden – che pure ha imposto l’obbedienza Nato all’Ue – non è finora riuscito a portare Israele sulla sponda anti-russa.
Fra i pronostici di una fase storica divenuta turbolenta in grado estremo, l’esito (numerico e politico) del voto in Israele è fra i più difficili. L’unica certezza è che a Gerusalemme si voterà prima. E che i risultati avranno conseguenze sul midterm americano. E sulla guerra russo-ucraina, a qualunque stadio sarà fra quattro mesi.
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