Da oggi entra nel vivo in Parlamento il dibattito sulla manovra economica. Vedremo quali e quanti dei 4.500 emendamenti fin qui presentati resteranno. Il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri, parlando sabato alla festa del Foglio a Firenze, ha cercato di minimizzare: bella novità, ogni anno di questi tempi si parla di assalto alla diligenza così come ogni agosto si parla dell’esodo estivo. Sarà pure una triste consuetudine, ma è un fatto che il precario equilibrio dei conti pubblici può essere messo in pericolo oggi più che mai.
Gualtieri ha annunciato che verrà riformulata la tassa sulla plastica che ha provocato una valanga di critiche e seri allarmi in un’intera filiera produttiva dislocata soprattutto in Emilia, là dove si vota a gennaio e dove proprio il Pd, il partito al quale appartiene il ministro, rischia di perdere. E ancora Gualtieri ha promesso una svolta sugli investimenti: tra domani e dopodomani dovrebbe essere annunciato lo sblocco di investimenti bloccati per ragioni burocratiche, pari a tre miliardi: è solo l’inizio perché molti altri fino a oltre 45 miliardi, possono essere messi in moto. Si tratta di una promessa già sentita più volte, vedremo se questa volta diventerà realtà.
Intanto, però, emerge una vera e propria questione industriale. E non si tratta solo dell’Ilva pur con tutto il valore economico, sociale e simbolico che rappresenta. Né del tormentone Alitalia, una questione che, come nel gioco dell’oca, è tornata alla casella di partenza. No. c’è dell’altro persino più preoccupante. Lo ha messo in rilievo nel suo intervento il presidente dell’Assolombarda Carlo Bonomi.
“Sono molto deluso – ha detto l’imprenditore milanese – perché il dibattito pubblico si è concentrato solo sulla sostenibilità ambientale, ma ci si dimentica di altre sostenibilità essenziali: quella economica e quella sociale. Sul diesel eravamo all’avanguardia, abbiamo fatto un suicidio collettivo pensando che l’elettrico avrebbe risolto tutto, ma ci siamo sbagliati. Oggi ci ritroviamo con i cinesi che investono sul driverless, mentre noi discutiamo di Tav. È una competizione che abbiamo perso ma che era importantissima. Voi sentite qualcuno che parla di questo? Io ho un referente nel governo per parlare di questo?”. Domande che hanno il tono di un appello urgente, drammatico, che può diventare disperato. Di che si tratta?
L’industria manifatturiera italiana, quella che ha tenuto a galla il Paese e ha fatto da locomotiva per il resto dell’economia, ha come spina dorsale la fornitura di componenti in modo particolare all’industria tedesca, con una concentrazione importante nell’automobile. Proprio l’auto, protagonista di un vero e proprio boom negli ultimi anni, ha tirato la crescita tedesca e con essa anche la ripresa italiana. La sua brusca frenata ha spinto la congiuntura della Germania e dell’Italia verso il livello zero, cioè la stagnazione. È colpa senza dubbio dei tassi e della guerra commerciale tra gli Stati Uniti e la Cina, ma non solo. C’è una componente strutturale che oggi è ancora più importante e per molti versi anche preoccupante: il declino del motore diesel, avviato, più o meno rapidamente, all’estinzione per essere sostituito dall’ibrido e in futuro dall’elettrico che dovrebbe sostituire del tutto il motore a scoppio. Il condizionale è d’obbligo, si tratta di una scommessa e nessuno sa se, come e quando diventerà un nuovo paradigma industriale. Ma intanto mette in subbuglio migliaia di imprese e potenzialmente milioni di lavoratori.
Possiamo anche dolerci di un cambiamento troppo rapido e troppo azzardato, ma la storia ci ha insegnato che, dalla rivoluzione industriale in poi, i salti tecnologici scoppiano improvvisi come un temporale. Le nubi arrivano e le si può vedere da lontano, ma quando scocca la scintilla nessuno lo sa. Non si può prevedere con certezza, non si può arrestare, né si può proteggere alzando steccati e barriere, o programmare. La pianificazione non ha mai funzionato, tanto meno quando arriva quella che gli economisti chiamano “l’innovazione distruttiva”. Quel che si può, anzi si dovrebbe fare, è gestire la transizione.
Vuol dire senz’altro ammortizzare le ricadute sociali, ma anche aiutare le imprese a cambiare. La riconversione industriale in Germania è già cominciata, lo si vede dalle decisioni dei maggiori gruppi a cominciare dalla Volkswagen e dalla quantità di denaro che si sta investendo. La minaccia arriverà in futuro dalla Cina, ma la vera sfida già oggi (anzi fin da ieri) l’ha lanciata il Giappone. Il motore ibrido della Toyota ha spezzato l’incanto già da molti anni, gli industriali europei non l’hanno capito o hanno sperato che restasse una nicchia, invece così non è.
È questo il cuore della nuova questione industriale in Europa e in particolare in Italia, ma nessuno ne parla. E Bonomi cerca inutilmente un referente nel governo. Eppure molto si può fare. Il Conte 1, quello giallo-verde, ha ridimensionato un provvedimento come Industria 4.0 che aveva funzionato benissimo negli anni precedenti. Il Conte 2, quello giallo-rosso, lo ha ripristinato solo in parte. Oggi bisognerebbe ripensarlo inserendolo in un intervento su larga scala che accompagni la riconversione, affinché l’industria italiana non resti spiazzata. Le imprese si stanno rimboccando le maniche, ma il passaggio dalla meccanica alla meccatronica (che è già in corso) e poi verso una prospettiva che vede crescere il cuore elettrico dell’industria (dall’energia alla manifattura) è difficile, costoso, complesso.
Non lo può fare lo Stato, ma il governo può dare un contributo importante, così come la finanza e il credito. Occorre più che mai una operazione di sistema. E non è uno slogan, oggi meno che mai. Ecco perché sarebbe il caso di ascoltare il grido di dolore dell’Assolombarda.