Cade o non cade? I pochi e incerti supporter della maggioranza eterogena che sostiene il governo Conte 2 sfogliano la margherita trepidanti. La sfrontatezza con cui, more solito, Matteo Renzi sta impietosamente illuminando l’inconsistenza dell’alleanza giallo-rossa ne ha destabilizzato la coesione di cartapesta su cui si fonda.
Alla prima curva politica, è uscito di strada il capriccione con cui i grillini vogliono imporre una riforma anticostituzionale, scritta con i piedi quanto scellerata nelle intenzione e nei presupposti: quella della prescrizione. Quindi Renzi da una parte ha fatto capire che il re è nudo; e dall’altra ha chiarito che questa maggioranza deve obbedirgli se non vuole liquefarsi.
Nessuno può stare nella testa del Rignanese, e forse anche entrandoci per una qualche mostruosa alchimia, probabilmente non ci troverebbe alcun pensiero definito sul da farsi. Sa giocare a poker e vivere alla giornata. Sa, Renzi, perfettamente che i sondaggi più generosi accreditano la sua Italia viva di uno scheletrico 4%. Ma sa anche che la partita del potere si gioca tutta nel recupero all’unità elettorale di quella maggioranza silenziosa del Paese che è centrista con tentazioni conservatrici.
Il fatto nuovo ed enorme, da non sottovalutare, è che Renzi è uscito dal Pd e ha fatto un suo partito. Certo troppo piccolo per vincere le elezioni, ma abbastanza ambizioso per credere fermamente che dalle urne uscirebbe rafforzato.
Sappiamo che Renzi ha un ego smisurato, lo stesso che lo indusse a trasformare il referendum sull’incomprensibile riforma elettorale che propugnava nel 2014 in un referendum sulla sua persona, perdendolo. Ma sa anche che in un’ipotetica sfida elettorale ai suoi rivali darebbe molto filo da torcere.
L’ottimo Nicola Zingaretti è un leader non pervenuto, e ciò che resta dell’ex partitone che ha alle spalle è, sì, ancora bene organizzato sul territorio ma per esempio non lo è stato abbastanza da vincere davvero in Emilia, dove ha vinto in realtà un proconsole molto indipendente come Bonaccini e dove soprattutto ha perso l’uomo del citofono, Salvini, per il vizio assurdo di dar retta al domatore della “Bestia”, quel Luca Morisi cui si devono alcune delle trovate più autolesionistiche della recente campagna elettorale, dalla bufala della protesta contro le nocciole turche della Ferrero all’autogol della citofonata, appunto.
L’elettorato disperso della destra berlusconiana potrebbe facilmente essere attratto dalla sirena di un Renzi smarcato dalla bandiera rossa. Anche una parte dei voti in libera uscita dai grillini potrebbe sicuramente concentrarsi su di lui. E dunque i tanti che, con occhio limpido, vogliono un capo che comandi senza rivendicare platealmente quei pieni poteri auspicati per sé da Salvini, che per fortuna la nostra Costituzione impedisce, potrebbe a buona ragione votare per lui. Con finta umiltà Renzi sostiene che Italia viva valga un 20%: gli basterebbe la metà non solo per fungere da ago della bilancia ma anche, in un’inevitabile coalizione di centro, per guidarla.
C’è un convitato di pietra, in questo scenario: ed è Giuseppe Conte. Il premier sta dimostrando la resilienza di una salamandra. Attraversa quotidianamente immune tempeste di fuoco che incenerirebbero un monolite di quarzo. Sa parlare, trasmette serenità, pacatezza, idee chiare e buona volontà. Forse solo per quest’ultima evocazione appare coerente con il Movimento 5 Stelle che lo ha designato a Palazzo Chigi, che di buona volontà incapace sta morendo. Per il resto, Renzi è simile al grillino-tipo come una Ferrari somiglia a un ferro da stiro.
Cosa potrebbe fare Conte? Imporsi a Grillo come nuovo capo politico del Movimento, lasciando il ruolo pseudo-tecnico e finto-asettico che ha recitato finora. E dunque arginare la liquefazione dei nipotino del comico. Ma anche in questo scenario, chi se non un rafforzato Renzi potrebbe coalizzarsi con lui, sostituendosi a un Pd sempre meno lucido e coeso nell’alleanza con i gialli?