L’11 gennaio è stato diffuso il dato tendenziale annuo dell’inflazione Usa riferito al mese di dicembre 2023, che è risultato essere del 3,4%, quindi superiore di 0,2 punti alla stima riportata da Bloomberg che raccoglie le stime di operatori del mercato di Wall Street. Anche nel mio intervento di stima avevo indicato un valore puntuale del 3,2% con valore minimo dell’intervallo del 3,0%; elaborazione pertanto in disallineamento marginale con i dati effettivi.
Purtroppo, da venerdì 12 gennaio sono iniziate operazioni militari aereo-navali da parte di americani e inglesi nell’area del mar Rosso adiacente allo Yemen, in corrispondenza dell’importante stretto di entrata e attraversamento del Mar Rosso verso il Canale di Suez, che aggiungono prospettive incerte e peggiorative a tutta la curva di offerta aggregata<, sia in Europa che negli Usa; le uniche differenze saranno dovute al diverso modo di strutturazione della catena produttiva e industriale, ma per le due sponde dell’Atlantico, se questi fatti militari scatenano reazioni delle più ampie e diffuse, non è più improbabile trovarsi di nuovo a valori di 110-120 dollari per il barile Wti del petrolio, e questo vorrebbe dire fine del purché minimo controllo del fenomeno inflattivo e con valori che in capo a 5 o 6 mesi supererebbero di nuovo il 7% in media di tasso inflattivo. Uniamoci poi negli Usa disavanzi federali dell’ordine del 6,5-7% per aversi così un’inflazione fuori dal benché minimo controllo della Fed, la quale non avrebbe nemmeno in mano la leva piena dei tassi di interesse, in quanto al 7,5% indicativo di tassi di riferimento, il debito pubblico a stelle e strisce andrebbe fuori controllo e sarebbe di fatto esplosivo.
In più chiare lettere, il sentiero che ha davanti la nazione è stretto, e quello che tocca subito eliminare da parte della Casa Bianca è un’inutile e stantia propaganda sul petrolio, che può confondere e abbindolare i meno avvezzi e non esperti della materia, a far credere alla favola di esportatori netti di idrocarburi da parte degli Usa, nonché fra i primi al mondo. Anche questo dato va sceverato di nuovo per togliere di mezzo qualsiasi confusione; gli Usa sono esportatori netti di Gnl, cioè metano, e probabilmente i primi del mondo, ma va ricordato che la quota di gas sul consumo mondiale di energia è pari al 19%; invece, gli Usa hanno necessità ogni giorno di 20,5 milioni di barili di petrolio estratto, di cui in media 12 li producono essi stessi con circa 7 milioni di petrolio scadente derivante dallo shale gas con la tecnica del fracking, che va addizionato con petroli pregiati, tipicamente quelli del Medio Oriente e russi, in quanto il numero di ottani per volume di riferimento non arriva a 75, mentre quello saudita in media il più pregiato del mondo giunge anche a 96 ottani per volume di riferimento; ricordiamo brevemente che tutto il petrolio del grande Medio Oriente ha come minimo i 93 ottani, così come lo Urals russo, così come il petrolio venezuelano; a tutto questo va aggiunta la scarsa presenza di impurità; inoltre, sopra i 90 ottani il petrolio è considerato pregiato e infatti funziona per ogni utilizzo senza additivi.
Ritorniamo perciò ora alla dimensione quantitativa del petrolio che serve agli Usa, avendosi così che circa 8,5-9 milioni di barili vanno importati, di questi circa 4 milioni sono forniti dal Canada, 1 milione dal Messico e alla fine pertanto gli Usa sono deficitari di 2 o 3 milioni di barili giornalieri di petrolio estratto.
Esportano, però, gli americani circa 3 milioni di barili di prodotti raffinati e quindi la loro domanda di 20,5 milioni di barili è lorda date le esportazioni dei prodotti ottenuti dalla raffinazione del petrolio estratto, per esempio, benzine, plastiche, ecc. La nazione potrebbe, quindi, non dipendere in teoria dal Golfo persico- e in modo oggigiorno minimale dalla Russia stessa – semplicemente non esportando prodotti raffinati. Questa soluzione, però, è solo teorica e anche campata in aria, in quanto dal lato contabile del Pil e della domanda aggregata, a fronte del risparmio di circa 100 miliardi di importazioni di petrolio estratto, la nazione perderebbe il guadagno di circa 1.600 miliardi derivanti dall’esportazione di 3 milioni di barili di prodotti raffinati e tutto questo vorrebbe dire una caduta secca dell’8% circa del Pil.
La seconda ragione ostativa alla non importazione di petrolio dal Golfo Persico è probabilmente più importante della prima, nel senso cioè che grazie al Medio Oriente gli Usa possono far diventare performante il loro scadente petrolio da shale gas, appunto arricchendolo e potendolo destinare così a ogni tipo di utilizzo, dai trasporti civili e militari, agricoli e industriali, fino ad arrivare all’uso energetico per le industrie dell’acciaio e dell’alluminio.
Questa appena presentata è la partitura a soggetto dell’inflazione americana, e qualsiasi lettura che dà centralità ai tassi di interesse della Fed, o ancora peggio alla varianza dell’indice inflattivo stesso, è fuori dagli scenari reali, concentrandosi invece su un mondo che non esiste più, quello cioè dove la domanda aggregata statunitense informava di sé tutta l’economia del pianeta.
Oggi, e precisamente dal 2020 in avanti, le questioni macroeconomiche cruciali hanno i profondi fattori di causazione negli shock sull’offerta aggregata, tale per cui stiamo avvicinandoci sempre più a un sinistro parallelismo qualitativo, quello cioè del 1929, dove da ottobre in avanti e per la precisione il 6 ottobre, il giovedì nero, i valori azionari di Wall Street persero qualsiasi significato effettivo, denotando invece il loro essere una gigantesca bolla speculativa. Il Dow Jones di questi giorni sta perdendo i contatti col mondo reale, politico e economico.
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