Alla vigilia del tanto atteso appuntamento di politica monetaria delle Bce, le casse del Tesoro italiano hanno dovuto pagare caro (ancora) il loro nuovo debito in emissione. Il destino delle finanze del Bel Paese non può cogliere di sorpresa nessuno e, verosimilmente, anche in ottica futura la dinamica sarà pressoché la medesima che abbiamo finora registrato. Inoltre, a seguito dell’ormai imminente rialzo dei tassi di interesse (primo del 2023), il conto della spesa pubblica vedrà l’ennesima zavorra appesantire le già ampie e smisurate uscite di bilancio.
Nella giornata di ieri, il mercato obbligazionario domestico ha beneficiato di un ulteriore collocamento di titoli di Stato che, nella fattispecie, ha visto privilegiare la struttura a cedola fissa (Btp) rispetto a quella variabile rappresentata da CCTeu. La durata dei primi è stata pari a 5 e 10 anni, mentre la restante ha colmato la parte della curva dei rendimenti a sei anni. Complessivamente l’intero ammontare offerto ha soddisfatto senza alcun clamore la domanda da parte del mercato così come ben sintetizzano i rispettivi rapporti di copertura riconducibili a ciascun titolo: 1,38 per il Btp 01 aprile 2028, 1,35 per il Btp 01 maggio 2033) e infine 1,76 per il residuale CCTeu con scadenza 15 aprile 2026.
I 9 miliardi di euro collocati hanno registrato un aumento dei rendimenti che, se contestualizzati al valore assoluto del debito contratto, evidenziano un significativo rialzo: 3,70% per il prestito a cinque anni e 4,28% per quello a dieci anni. Di misura più modesta, invece, il costo dell’erogato italico a sei anni che ha visto una più sopportabile soglia del 2,58% che, in prospettiva, poi lieviterà.
Dal punto di vista relativo dei singoli rendimenti corrisposti, fatta eccezione per il sottostante a tasso variabile, la differenza rispetto alle precedenti emissioni ha subito un maggior costo per lo Stato: quattordici punti base sulla scadenza a cinque anni e trentuno punti sulla parte più lunga a dieci anni.
Oggi, osservando l’intera offerta attualmente presente sul mercato domestico, emerge chiaramente la rapidità della recente progressione messa a segno dai sottostanti a tasso fisso soprattutto sulle scadenze più brevi (non oltre i cinque anni): di fatto, concentrandosi unicamente sul monitoraggio dello yield to maturity del benchmark a 5 anni, appare plausibile auspicare il conseguimento di nuovi massimi di periodo che, strutturalmente, vedrebbero valori storici riscontrabili nel lontano 2012.
Ovviamente, se tale ipotesi dovesse realizzarsi, l’unico soggetto a beneficiarne sarebbe il potenziale investitore, mentre lo Stato, abdicando, vedrebbe le proprie casse alleggerirsi con il trascorre del tempo. Non è stato scoperto nulla di nuovo, ma, possiamo dirlo senza alcun dubbio, in un contesto storico così complicato e difficilmente interpretabile, forse, per una volta, è il risparmiatore a godere di tutto ciò.
Alla scontata e corretta obiezione riconducibile alla mancata copertura del costo legato all’inflazione la risposta è presto data: la coperta è corta per tutti. Anche per chi risparmia, investe e deve ritornare ad accontentarsi. Alternativamente: il rischio è sempre presente e pronto a soddisfare ogni forma di avidità.
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