Com’è noto, il gruppo Intesa San Paolo ha proposto la settimana corta ai sindacati di settore. L’azienda, che in Italia conta più di 80 mila dipendenti, vuole portare i giorni di lavoro a 4 e alzare da 7,5 a 9 le ore su base quotidiana, lasciando inalterati l’ammontare orario complessivo e la retribuzione.



Al momento la proposta è stata accolta con un po’ di freddezza dai rappresentanti dei lavoratori perché – come spiegato in una nota da Fabi, First-Cisl, Fisac-Cgil, Uilca-Uil e Unisin – “l’azienda limita la fruizione della settimana corta escludendo a priori l’applicazione per i colleghi della rete e per quelli operativi in turni. L’impostazione dell’azienda è inaccettabile perché crea ulteriori differenze tra i colleghi di rete e quelli di governance”. Peraltro, prosegue la nota, “il contratto nazionale di lavoro definisce il 4×9 (prestazione lavorativa settimanale articolata su 9 ore per quattro giornate lavorative a parità di stipendio) per tutte le lavoratrici e i lavoratori del nostro settore, ma la banca non lo ha mai voluto utilizzare”.



Naturalmente, la relazioni sindacali hanno bisogno dei loro tempi per arrivare ad accordi condivisi. Quello che però qui pare interessante, è questa accelerazione verso la riduzione dell’orario di lavoro di una delle più importanti aziende italiane. La pandemia ha, infatti, universalmente evidenziato il bisogno di flessibilità di imprese e lavoratori. E il fenomeno della “grande dimissione” con cui il mondo avanzato ha iniziato a misurarsi – pur con condizioni diverse in Usa e Ue – ci indica che è necessario proseguire su questa strada.

Per quanto riguarda il nostro Paese, nelle rilevazioni che Inps diffonde periodicamente circa i flussi occupazionali di assunzione, cessazione e trasformazione dei rapporti di lavoro, è sempre più rilevante la voce “dimissioni”. Nell’ultimo bollettino (settembre 2022), le dimissioni volontarie hanno registrato un sensibile incremento: nel primo semestre 2022 sono oltre 620.000. Si tratta di un +22% e +28% rispetto ai corrispondenti periodi del 2021 e del 2019; nel 2020 il trend è stato attutito dal massiccio blocco dei licenziamenti. Nel 2021, invece, il fenomeno ha riguardato quasi 2 milioni di posizioni lavorative (1.925.371), pari a circa all’8% del totale degli occupati.



Che sia un fenomeno da non sottovalutare ce lo dice quanto sta avvenendo negli Stati Uniti, il cui mercato solitamente anticipa comportamenti che, in un secondo momento, si manifestano anche in Europa. Tra luglio e agosto del 2021, quando le aziende hanno iniziato a ridurre il distanziamento e a richiamare le persone in ufficio, oltre 8 milioni di lavoratori hanno presentato le loro dimissioni, il 30% senza un’alternativa (dati Dipartimento Lavoro Usa). È un trend che non si è arrestato: secondo le stime di Goldman Sachs, a fine anno si contavano oltre 20 milioni di dimissioni volontarie.

Sono diverse le ricerche che si sono cimentate col problema (in particolare, Pew Research Center Washington) e ciò che emerge è che le ragioni del fenomeno sono svariate e vanno oltre l’aspetto della retribuzione (che tuttavia riguarda circa il 60% dei casi). Le motivazioni più importanti rilevate riguardano l’assenza di opportunità di migliorare la propria posizione in azienda (60% ca.), la mancanza di rispetto sul posto di lavoro (60% ca.), i problemi con i figli (50% ca.), l’orario di lavoro non flessibile (50% ca.), le troppe ore di lavoro (45% ca.), ecc.

In Europa sono molti i Paesi in cui la riduzione dell’orario lavorativo è già stata attuata o dove si sta sperimentando: dai casi precursori di Francia, Germania, Svezia, Danimarca, Paesi Bassi, Norvegia e Svizzera fino ai più recenti Spagna, Belgio e Islanda. In Italia, dove la contrattazione collettiva ha ancora un ruolo molto forte circa interventi di questo genere, si procede più lentamente, ma è preferibile che una riforma come questa sia attuata dalle Parti sociali e non dal legislatore.

Governare la grande dimissione non significa soltanto ridurre l’orario di lavoro, ma anche allargare il perimetro della flessibilità e sviluppare lo smart working nella forma di ciò che oggi chiamiamo “lavoro ibrido”.  La microimpresa – il 95% del nostro tessuto produttivo ha meno di 10 addetti – potrebbe andare in difficoltà con i pochi dipendenti che ha dinnanzi a una riforma rigida sull’orario di lavoro. Per questo, il processo di sviluppo più adatto al nostro sistema lavoro è sulla flessibilità organizzativa.

Ciò che in ultima analisi è importante è che gli obiettivi di work-life balance diventino prioritari nella gestione delle risorse umane. Non solo perché è fisiologico e necessario, ma anche perché un maggior benessere di uomini e donne al lavoro ha importanti incidenze sulla produttività aziendale.

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