La settimana che ha fatto tremare i deboli di cuore si avvia a una conclusione tranquilla, seppur non serena. Gli interventi delle autorità Usa assieme alla pioggia di liquidità distribuita da Berna che ha fatto rientrare l’incendio del Crédit Suisse hanno evitato l’esplosione di una nuova crisi bancaria, potenzialmente non meno grave di quella del 2008/09, anche se stavolta non è possibile prendersela con i mutui subprime o con l’esuberanza irrazionale dei mercati.
Sul banco degli imputati, se proprio si tratta di trovare un colpevole, c’è l’ascesa troppo rapida dei tassi di interesse, pur giustificata dal rialzo non meno spettacolare dell’inflazione. Ovvero le regole troppo lasche del mercato Usa, dopo che Donald Trump ha in pratica esentato le banche regionali dal rispetto della disciplina prevista per gli istituti più importanti.
Ma al di là delle inevitabili polemiche, ora conta capire se gli interventi disposti dalle autorità siano sufficienti o meno a garantire nel tempo la stabilità del sistema. Oppure se l’azione dei “pompieri” avrà l’effetto perverso di stimolare il “moral hazard” del mondo finanziario, confortato dalla rete di protezione messa in piedi dal segretario al Tesoro Usa, Janet Yellen assieme ai banchieri più importanti e alla Fed, nonché dagli gnomi di Berna, disposti a prestare la bellezza di 50 miliardi di franchi (un paio di finanziarie del Bel Paese) per evitare il collasso da liquidità del secondo istituto del Paese delle banche per eccellenza. Per valutare lo sforzo dei banchieri americani, invece, basta dire che la “finestra di liquidità” aperta per difendere i correntisti di Silicon Valley Bank e di Republic Bank, nonché di altre banche nel mirino, supera i 150 miliardi di dollari, più di quanto messo in campo nel 2008.
Le autorità, a fronte del fresco ricordo del disastro provocato dalla decisione di punire Lehman Brothers per il comportamento speculativo, hanno deciso di seguire la linea del salvataggio a ogni costo. Senza indugi o ambiguità: al di là delle proteste demagogiche, si è capito che l’attività bancaria è diversa dalle altre: se fallisce un’industria dell’auto, un concorrente subentrerà nel mercato senza traumi. Ma se fallisce una banca si genererà sul mercato un effetto panico che presto contagerà i concorrenti congelando l’attività per mancanza di liquidi in circolazione. Di qui il salvataggio di sistema che lascia comunque aperte alcune questioni, del tipo: dove si fermerà l’ombrello delle banche centrali? Solo ai depositi oppure dovrà esser allargata ad almeno una parte delle obbligazioni create dalla fantasia finanziaria, tipo i Co.co. bond?
Il vero problema, però, riguarda l’inflazione, il nodo irrisolto delle banche centrali. Sia la Fed che la Bce hanno spinto (troppo) la liquidità per evitare che l’economia, reduce dalla pandemia, finisse in deflazione. Poi, dopo aver colpevolmente definito “transitoria” l’ascesa dei prezzi, hanno avviato in ritardo l’azione di rialzo dei tassi adducendo la “scusa” del boom dell’energia (buono solo per l’Europa) per poi procedere a un’azione di contenimento dei salari evidente negli Usa e nel Nord Europa. La manovra, per ora, ha avuto un effetto solo parziale.
Nel frattempo, come dimostrano le crisi delle banche Usa, il tessuto economico non sembra in grado di sostenere appieno la battaglia contro l’inflazione. Anche l’Europa, a giudicare dagli ultimi dati, non sembra poter reggere il passo. Un po’ perché il costo del lavoro è destinato a salire, molto perché le esigenze della lotta al cambiamento climatico e alle altre emergenze impongono spese crescenti. È difficile immaginare una lotta all’inflazione di successo se in contemporanea aumentano le spese.
L’aumento dei tassi reali , insomma, sembra destinato a proseguire. I mercati dovranno fare i conti da una parte con un’inflazione che fa fatica a scendere e qua e là risale e, dall’altra, con un ciclo economico che tenderà a rallentare nei prossimi mesi. E non dovranno dimenticare il fatto che le banche, dopo la lezione di questa settimana, saranno da qui in avanti ancora meno disponibili a erogare crediti alle imprese. Avranno in cambio banche centrali un po’ meno aggressive. La conseguenza immediata sarà il recupero delle obbligazioni, ancora segnate dai brutali cali del 2022, a danno dell’azionario. Poco male, se non scoppieranno altre emergenze.
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