Ieri due petroliere, la norvegese Front Altair di proprietà della società Frontline (Isole Marshall) e la Kokuka Courageous della società giapponese Kokuka Sangyo, battente bandiera di Panama, sono state attaccate nel Golfo di Oman. I carichi trasportati sarebbero “collegati al Giappone”, ha detto il ministro del Commercio di Tokyo. I contorni della vicenda non sono del tutto chiari: una delle due petroliere sarebbe stata colpita da un siluro, mentre gli equipaggi sarebbero stati evacuati sia dalla marina iraniana che da quella americana, ma Washington ha negato il coinvolgimento dell’Iran nelle operazioni di salvataggio. “Per lo stretto di Hormuz passa più del 20% del consumo mondiale di petrolio” dice Paolo Quercia, docente di studi strategici nell’Università di Perugia e direttore del Cenass. Secondo Quercia non bisogna trarre conclusioni affrettate: “i conflitti che si addensano nel Golfo sono tanti e non riguardano solo Iran e Arabia Saudita, ma anche l’Asia-Pacifico”.
Cosa può dirci di quanto accaduto?
In qualche modo è un episodio che poteva essere atteso. Qualcosa di simile era avvenuto un mese fa. Ora però le navi colpite sono due e, sopratutto, sono state colpite in navigazione, dunque la capacità di chi ha portato l’attacco è decisamente superiore.
L’attacco è avvenuto mentre Shinzo Abe è in visita in Iran. È la prima visita di Stato dal 1979. Leggiamo che il Giappone ha buoni rapporti, oltre agli Usa, anche con l’Iran. Quali considerazioni le suggerisce questo fatto?
Abe era nella capitale iraniana, con l’obiettivo di ridurre le tensioni tra Teheran e gli Usa, una visita storica in un momento particolarmente complesso per l’Iran. Ricordiamo che pochi giorni fa Trump era stato in visita in Giappone. Contatti diplomatici in questo senso Tokyo li aveva tenuti anche con Arabia Saudita e Israele. L’azione del Giappone non era unilaterale ma concertata, o quanto meno frutto di una diplomazia complessa. L’ipotesi che l’obiettivo di questo attacco fosse di danneggiare questa iniziativa è credibile.
E le responsabilità?
Chi sia stato è ovviamente difficile capirlo. Può esserne responsabile uno Stato o gruppo terroristico che opera negli interessi di uno Stato. Ma anche una componente interna di uno Stato in disaccordo con la politica del proprio governo. L’elenco dei potenziali responsabili potrebbe essere molto lungo. Con questi pochi elementi, stilarlo non ha senso.
Siamo nel contesto della guerra tra Iran e Arabia Saudita per il controllo del Medio Oriente.
Anche, ma i conflitti che si addensano nel Golfo sono tanti e non riguardano solo Iran e Arabia Saudita. Nell’area che va dal Golfo all’Asia-Pacifico si stanno intrecciando più conflitti. Il futuro del petrolio del Medio Oriente sarà fondamentale anche per la crescita dei giganti asiatici. L’attivismo del Giappone va visto anche in questo senso.
Quanto pesa la denuncia degli accordi con l’Iran sul nucleare fatta dagli Usa e la politica americana verso Teheran?
La denuncia dell’accordo sul nucleare ha rappresentato l’avvio di questa nuova fase di contrapposizione con l’Iran. Una politica che Trump aveva sempre sostenuto fin dalla campagna elettorale. Certamente, soddisfare gli interessi geopolitici degli alleati sauditi ed israeliani ha avuto il suo peso. Però ritengo che la partita oggi sia più complessa.
Washington che cosa vuole ottenere?
Molti dicono che gli Usa vogliono il regime change a Teheran. Io penso piuttosto che l’obiettivo degli americani sia quello di ridurre le risorse economiche a disposizione di Teheran per impedire che gli iraniani le usino per avanzare la loro influenza in Siria, Iraq, Afghanistan, Libano e allo stesso tempo togliere risorse energetiche alla potenza cinese, che ne ha disperato bisogno per alimentare la sua fame inesauribile di energia e di potenza. Insomma, i giochi strategici nel Golfo Persico non hanno solo una portata medio-orientale ma globale.
(Federico Ferraù)