L’OMICIDIO DEL COMMISSARIO LUIGI CALABRESI: DATA, RESPONSABILI E CONDANNE
Il 17 maggio 1972 si scrisse purtroppo una delle pagine più tristi della storia del Novecento italiano con l’omicidio del commissario di Polizia a Milano, Luigi Calabresi. Tramite il docufilm “Lotta Continua” di Tony Saccucci – in onda questa sera su Rai 3 alle ore 21.25 – si potrà ripercorrere l’origine, i fatti e le successive condanne per l’omicidio del responsabile della squadra politica della Questura di Milano nel pieno degli Anni di Piombo. Il commissario Calabresi venne ucciso tre anni dopo la Strage di Piazza Fontana sostanzialmente per un fatto altrettanto tragico e triste avvenuto a soli tre giorni dalla bomba che devastò il Centro di Milano: il 15 dicembre 1969, uno degli anarchici arrestati sospettati di aver messo la bomba alla Banca Nazionale dell’Agricoltura, Pietro Pinelli, precipita durante un interrogatorio dal quarto piano della questura di via Fatebenefratelli. Quello studio era quello di Luigi Calabresi ma, dimostrarono poi i processi, il commissario non era presente al momento della morte di Pinelli. Questo fatto non venne minimamente creduto all’epoca da stampa di sinistra e organizzazioni extraparlamentari, in primis il movimento rivoluzionario di Lotta Continua: la storia dell’omicidio Calabresi nacque purtroppo quel tragico giorno nel centro tumultuoso di Milano.
«La mattina di mercoledì 17 maggio 1972, verso le ore 9:15, davanti alla sua abitazione sita in Milano in via Cherubini numero 6 il dottor Luigi Calabresi, commissario capo di Polizia di stato, addetto all’ufficio politico della Questura di Milano, uscito dall’andito del palazzo, attraversava il marciapiede e si avviava verso lo spartitraffico posto al centro della strada. Ma a metà circa del percorso veniva raggiunto da un individuo a piedi, armato di rivoltella che, al momento dell’apertura della portiera, gli esplodeva contro due colpi, uno alla nuca uno alla schiena, che provocavano la morte pochi minuti dopo l’immediato trasporto all’ospedale»: questo si legge nella sentenza della Corte Suprema di Cassazione il 22 gennaio 1997, quella in cui i responsabili di Lotta Continua vennero condannati in via definitiva per l’omicidio del commissario Calabresi.
L’odio nei suoi confronti fu scaturito dalla convinzione che avesse avuto delle responsabilità nella morte di Pinelli finendo nel mirino della sinistra extraparlamentare per tutta una serie di altre sue indagini. In un primo momento le indagini sulla morte di Calabresi brancolarono nel buio: arrestato in Svizzera un pittore ritenuto a capo delle Br, poi se seguì la pista di destra con altri tre arresti. Ma la “pista” delle Brigate Rosse venne poi abbandonata anche perché non vi fu mai alcuna rivendicazione: la svolta arriva incredibilmente 16 anni dopo l’assassinio. Leonardo Marino, ex militante di Lotta Continua, confidò al parroco del paese di aver avuto un ruolo nel delitto del commissario. Successivamente si presentò ai carabinieri di Sarzana autoaccusandosi e chiamando in causa altri compagni di Lotta Continua: Ovidio Bompressi (ritenuto l’esecutore) e i leader del movimento Adriano Sofri e Giorgio Pietrostefani (ritenuti i mandanti). Il lunghissimo iter giudiziario portò alla condanna in via definitiva per 22 anni ai tre accusati da Marino (che ottenne invece lo sconto di pena per aver collaborato, ndr): si professarono tutti innocenti, con la differenza che Sofri accettò il carcere (anche per essersi sempre sentito colpevole “morale” del clima nato attorno al commissario Calabresi dopo la Strage di Piazza Fontana) mentre Pietrostefani fuggì in Francia, salvo poi essere arrestato nell’aprile 2021 e tutt’ora in attesa del via libera definitivo all’estradizione richiesta dall’Italia.
OMICIDIO CALABRESI, IL PERDONO DELLA VEDOVA GEMMA A LOTTA CONTINUA
Quella tragica mattina dell’omicidio di 50 anni fa, il commissario Luigi Calabresi uscì di casa salutando la moglie Gemma Capra e i due figli Mario e Paolo: la futura vedova era in attesa del terzo figlio, Luigi jr.. La famiglia aveva sopportato tre anni di attacchi, ignobili insulti, scritte sui muri della città con “Calabresi assassino” e “Calabresi fascista” o “Calabresi boia”. «Questo marine dalla finestra facile dovrà rispondere di tutto. Gli siamo alle costole, ormai, ed è inutile che si dibatta come un bufalo inferocito […] Qualcuno potrebbe esigere la denuncia di Calabresi per falso in atto pubblico. Noi, che più modestamente di questi nemici del popolo vogliamo la morte», scriveva il quotidiano di Lotta Continua il 6 giugno 1970 e i vari volantini realizzati contro il commissario ritenuto responsabile dell’attentato fascista dello Stato italiano contro l’anarchico Pinelli. Il 13 giugno 1971 un lungo appello su “L’Espresso” 757 sottoscrittori tra registi, attori, politici, scrittori, giornalisti e presentatori approvarono parole durissime contro il commissario milanese: «torturatore», «responsabile della fine di Pinelli», «Noi chiediamo l’allontanamento dai loro uffici di coloro che abbiamo nominato, in quanto ricusiamo di riconoscere in loro qualsiasi rappresentanza della legge, dello Stato, dei cittadini».
Un anno dopo l’omicidio Calabresi portò alla ribalta questo sistema di “accanimento e linciaggio” mediatico, tanto che alcuni nel corso degli anni a seguire chiesero ufficialmente scusa alla famiglia per aver avvallato quella “cupola” di clima mediatico di fuoco contro Luigi Calabresi (tra questi, Maurizio Costanzo e Paolo Mieli). «il perdono non è una debolezza, il perdono è una forza», raccontava Gemma Capra nel podcast di ChoraMedia dell’aprile 2021, intervistata dal figlio Mario Calabresi. Un perdono inatteso, discusso da alcune famiglie di vittime del terrorismo, ma un perdono che lascia il segno: «ho fatto un mio cammino, ma credo che anche loro non siano più gli stessi. E tra l’altro sono anziani e malati. Oggi non mi sento né di gioire né di inveire contro di loro, assolutamente». Il figlio Mario, spiazzato, alla mamma con amore chiese sempre nel podcast «Avevi 25 anni e vedevi l’uomo che amavi e che consideravi una persona per bene, che non c’entrava nulla con le accuse che gli venivano mosse, che subisce questa campagna di linciaggio, le minacce, le scritte sui muri, le lettere minatorie. Poi viene ammazzato sotto casa. Come facevi ad avere ancora fiducia negli esseri umani?». La risposta colpisce ancora di più e rivela come vi sia sempre possibile un lume di speranza in una vicenda umana e tragica come quella sorta nell’omicidio Calabresi: «Io ho scelto da subito di farvi vivere non nel rancore e nell’odio, ma ho fatto il possibile per darvi la gioia di vivere e di credere ancora nell’umanità, nell’uomo e nelle persone, nonostante tutto. Non ho mai perso la fiducia negli esseri umani, devo dire la verità. Perché quelle persone lì non rappresentavano l’umanità, non rappresentavano l’Italia. Io ho ricevuto centinaia e centinaia di lettere di solidarietà, lettere di affetto, io non mi sentivo sola. Per me la minoranza erano quelli che avevano deciso di ucciderlo, erano quelli che per un’ideologia sbagliata hanno costruito a tavolino un mostro al quale non corrispondeva assolutamente Gigi. Il mio è un cammino di fede […] Ho dei momenti ancora magari difficili. Però io volevo arrivare a pregare per loro e riesco a farlo. Ogni giorno nelle mie preghiere, io prego perché loro abbiano la pace nel cuore».